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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 25 settembre 2023

Ci sono voluti trent’anni per catturare il capo mandamento di Trapani. I tanti interrogativi sulla sua latitanza e quel blitz il 16 gennaio 2023 a Palermo mentre entrava nella clinica “Maddalena” per curarsi. L’ultimo super boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, è morto. Il padrino, nato a Castelvetrano 61 anni fa, è deceduto presso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila, un reparto adibito al 41 bis. Negli ultimi mesi, il peggioramento era inevitabile per il boss affetto da un tumore al colon al IV stadio. Non è un caso che sia stato tratto in arresto il 16 gennaio scorso, mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città. Quando si è reso conto di essere braccato, ha accennato a allontanarsi. Non una vera e propria fuga, visto che decine di uomini del Ros, armati e col volto coperto, avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, si sono resi conto solo dopo di quanto era accaduto e hanno applaudito i militari ringraziandoli.

Come mai ci sono voluti trent’anni per arrestare Matteo Messina Denaro? Le domande che fecero subito scattare le dietrologie più disparate fino a far credere che dietro il suo arresto ci sia stata una sorta di trattativa. La mafia è territoriale, il suo feudo lo proteggeva grazie a una vasta rete di fiancheggiatori, talpe (i soldi permettono ciò), sicuramente anche politici locali (basti pensare all’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì, all’epoca presidente della provincia di Trapani, il “feudo” di Messina Denaro) e il suo impero economico come il business dell’eolico. E infatti, in questi lunghi anni, diverse operazioni giudiziarie hanno colpito pesantemente la sua ricchezza, depotenziandone la protezione. Ma in questi anni sono stati commessi anche degli errori. Non dai Ros, ma dalla direzione della procura di Palermo dell’epoca.

Basti pensare che nel 2012 si sono registrate polemiche tra i vertici della Procura di Palermo. A rivelarlo in un’intervista alla trasmissione KlausCondicio è stata Teresa Principato, all’epoca procuratore aggiunto del capoluogo siciliano che da anni coordina le investigazioni sulla cattura. “L’indagine - aveva aggiunto Principato - è stata compromessa dalla dirigenza della procura e non dal Ros. Detto questo non voglio mettere in discussione le decisioni del procuratore. La scelta della dirigenza della Procura di Palermo di stoppare le indagini mi ha molto amareggiata”. E non è stato l’unico incidente di percorso. Che Matteo Messina Denaro avesse il proprio covo nel suo feudo non dovrebbe meravigliare nessuno. Tutti i boss, a partire da Totò Riina, non se ne sono mai andati dal proprio territorio. Anche Bernardo Provenzano viveva tranquillamente rintanato nel suo casolare di campagna. E riuscì a essere latitante per ben 43 anni. Anche lui non negò la propria identità e si complimentò stringendo la mano agli uomini che gli hanno messo le manette.

Come divenne boss del feudo trapanese - In rappresentanza della provincia di Trapani, Matteo Messina Denaro è stato designato da Totò Riina - a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano - a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ‘91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ‘92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano iniziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma (e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.

Il suo primo e ultimo interrogatorio - Matteo Messina Denaro, a poche settimane dal suo arresto, è stato interrogato dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. Cosa è emerso? Poca roba, però ha dato una spiegazione chiara sul perché è stato catturato. Era evidente, logico. Da quando ha scoperto di avere il tumore, ha dovuto necessariamente abbassare le difese. Non nascondersi più, ma mimetizzarsi tra le persone. Doveva curarsi. “Mi sono messo a pensare”, ha raccontato ai procuratori, “e ho seguito un proverbio ebraico che dice: ‘Se vuoi nascondere un albero, piantalo in mezzo a una foresta’.”

E così ha agito. Ha fatto ritorno alla sua base e si è trovato costretto ad utilizzare il cellulare per comunicare con i medici dell’ospedale e prendere gli appuntamenti necessari. Da lì ha osato “scoprirsi” di più. Semplice, lineare, prevedibile. Poi da mafioso doc ha negato di essere di Cosa Nostra, ha negato tutto. Ma tra il detto e non detto, qualcosa lo fa capire. Poi ovviamente ci sono tanti omissis nella trascrizione dell’interrogatorio.

E forse qualche spunto per le indagini ulteriori potrebbe esserci. Ma questo solo il tempo ce lo dirà. Nel frattempo è morto. Anche se ricoverato in ospedale, è deceduto in regime del 41bis. Ciò solleva una questione: qual è il senso di un regime duro quando una persona è in fin di vita? Da una parte la mafia, dall’altra il volto inutilmente feroce dello Stato. Questo crea un alibi per i mafiosi, che in modo erroneo si convincono ancor di più di essere dei “criminali onesti”. Un ossimoro, quest’ultimo, citato da Messina Denaro durante l’interrogatorio stesso.