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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 21 gennaio 2024

Dietro le sbarre viene rinchiuso chi deve espiare una pena. Ma anche - e in Italia sono più di 16mila sugli oltre 60mila della sovraffollatissima popolazione carceraria - chi non è ancora condannato in via definitiva. Purtroppo è così: si può stare “dentro” anche da non colpevoli e condividere i claustrofobici spazi di una cella col delinquente più incallito e senza nemmeno sapere quando ci si potrà difendere davanti a un giudice. In carcere, luogo di tormenti e di solitudine con se stessi, si soffre, ci si dispera, si muore.

Sono già 20 i detenuti che hanno cessato di vivere dall’inizio dell’anno negli istituti di pena italiani, sette dei quali per mano propria, impiccandosi con un lenzuolo attorcigliato appeso alle grate della finestra, come ha fatto la scorsa settimana Matteo Concetti, 25 anni, di Fermo, nella cella di isolamento del carcere di Ancona, dove forse non doveva stare per via delle sue gravi condizioni psichiche.

Ma ci si può ammazzare pure lasciandosi ghermire lentamente dall’inedia, come ha deciso Stefano Bonomi, 65 anni, spirato nella notte di Epifania in un ospedale dopo lo sciopero della fame intrapreso nella Casa circondariale di Rieti, dove era detenuto da diversi giorni in attesa di giudizio. E proprio sul numero così elevato delle vittime dentro le carceri già nel primo mese dell’anno il collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale guidato da Mauro Palma (in regime di “prorogatio” finché non verrà nominato ufficialmente il suo successore, il che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni) lancia l’allarme: “Si preannuncia un andamento molto simile a quello del 2022, quando si contarono nei dodici mesi 85 suicidi”. Intanto, sempre all’inizio del 2024, è arrivata all’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la condanna per aver sottoposto un detenuto 45 enne, Antonio Libri, a maltrattamenti non garantendogli le cure mediche necessarie avendo stabilito che la prigione è compatibile con il suo stato di salute.

Il recluso che inoltrò il ricorso alla Corte di Strasburgo nell’ottobre 2020, condannato all’ergastolo per una serie di pesanti reati, tra cui l’appartenenza a un’organizzazione criminale di stampo mafioso, soffre di diverse malattie, tra cui una grave osteoporosi, ed è stato riconosciuto invalido al 100% con limitata mobilità agli arti inferiori. Nonostante il suo trasferimento da Rebibbia a Roma, in un carcere di Milano e poi in quello di Parma per poter essere sottoposto alle fisioterapie e ad altri trattamenti clinici, questi non sono stati adeguati, ha osservato la Cedu nella sentenza: l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti).

Il “caso Libri” mostra un altro squarcio nel sistema penitenziario italiano: l’inadeguatezza dei servizi sanitari all’interno degli istituti di pena, con pochi medici e infermieri, attrezzature insufficienti, scarso coordinamento con i presìdi sanitari del territorio. C’è poi la “piaga” dei servizi psichiatrici che, se potenziati, potrebbero contribuire a ridurre i suicidi, gli atti di autolesionismo e di violenza: in media un detenuto ha diritto a un’ora di colloquio con lo psichiatra ogni tre mesi, e con lo psicologo ogni 40 giorni. Ma ce ne vorrebbero di più.