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di Francesca Caferri

La Repubblica, 25 novembre 2023

Lo scambio alle 4 del pomeriggio: 24 rapiti tra israeliani e thailandesi contro 39 detenuti palestinesi. A Gaza migliaia di persone tentano di tornare a Nord ma trovano la strada sbarrata: due morti e timori per la tenuta del cessate il fuoco. Il cuore di Israele ieri si è fermato alle quattro in punto. A quell’ora nella piazza che negli ultimi 49 giorni è diventata l’arteria pulsante di questo Paese, quella stretta fra il museo di Tel Aviv e la Kyria, il ministero della Difesa, c’erano migliaia di persone: senza convocazioni, senza appuntamenti, senza striscioni, erano venute per stringersi intorno alle famiglie dei 236 ostaggi portati con la forza a Gaza il 7 ottobre e ancora nelle mani dei miliziani di Hamas e dei loro supporter.

Le quattro era l’orario fissato per l’inizio dell’operazione che avrebbe portato alla libertà 13 di loro. Da quel momento, sulla piazza ha cominciato a scendere un silenzio quasi irreale, interrotto solo dai canti che hanno segnato l’inizio dello Shabbat, il riposo ebraico. La tensione si è rotta solo ben dopo le 17 quando, in ritardo sui tempi previsti, sugli schermi dei cellulari hanno cominciato ad arrivare le immagini delle jeep con cui gli operatori del Comitato internazionale della Croce rossa hanno portato fuori da Gaza 24 fra uomini, donne e bambini: allora è arrivato il momento delle lacrime, degli abbracci, degli sfoghi.

Ad accogliere Aviv Katz Esher, 2 anni, suo fratello Raz, 4 anni, la loro mamma Doron, 34, Emilia Aloni, 5 anni e la sua mamma Danielle, 44, Ohad Mundar, 9 anni con la madre Mundar di 54 e la nonna Ruth di 78 e poi Adina Moshe, 72 anni, Hanna Katzir, 77, Margalit Mozes, 78, Channa Peri, 79, e Yaffa Adar, 85 - tutti prelevati dal kibbutz Nir Oz con l’eccezione della signora Peri - però non è stata una festa. Piuttosto un sospiro di sollievo, reso ancora più profondo dal fatto che insieme a loro sono tornati in libertà 10 lavoratori thailandesi e una signora filippina, rapiti nelle stesse circostanze.

Tutti sono stati immediatamente portati negli ospedali, dove ad aspettarli c’erano team di medici e psicologi. La sfida ora sarà curare non solo ognuno di loro come singolo, ma le famiglie intere: i Munder hanno lasciato a Gaza il nonno, il capofamiglia e hanno visto un altro parente assassinato sotto i loro occhi. La signora Peri ha un figlio nella Striscia e un altro che è stato ucciso a Nirim. La signora Moshe ha visto il marito colpito a morte a Nir Oz, ha un nipote a Gaza e un altro nella lista degli scomparsi. Come si può ripartire dopo tutto questo? Agli specialisti il compito di rispondere.

L’apparizione degli ostaggi è arrivata alla fine di una giornata iniziata con la tregua scattata alle 7 del mattino ma già minacciata qualche ora dopo dalla morte di due uomini a Gaza, uccisi dai soldati mentre dal Sud della Striscia tentavano di tornare al Nord. L’esercito israeliano aveva messo in guardia dall’avvicinarsi all’area, perché la considera zona di combattimenti e non ha esitato a sparare. Il timore è che fatti simili possano ripetersi nei prossimi giorni, mettendo a rischio i quattro giorni di pausa concordati.

Mentre a Tel Aviv si aspettavano notizie degli ostaggi, dalle carceri israeliane si muovevano verso quello di Ofer, in Cisgiordania, 24 donne e 15 minori palestinesi: qui sono stati sottoposti a controlli medici prima di essere portati presso uno dei punti di passaggio fra Israele e i Territori per essere rilasciati. Ad accoglierli, urla di gioia e festeggiamenti in Cisgiordania, ma un’atmosfera ben più sobria a Gerusalemme Est, dove sin dalle prime ore della mattina la sorveglianza della polizia israeliana era intensa.

Ieri a soffrire, a piangere e poi a gioire a Tel Aviv non c’erano i familiari degli ostaggi che sono stati liberati. Avvisati prima del tempo, erano stati già portati negli ospedali dove avrebbero poi riabbracciato i loro cari. Ma c’erano tutti gli altri, i compagni di lotta e di rabbia, delle notti accampati davanti al ministero e dei cinque giorni di marcia verso Gerusalemme che hanno costretto il governo Netanyahu a toccare con mano il gigantesco livello di solidarietà che si è creato intorno a queste famiglie. Contribuendo a convincerlo ad accettare un cessate il fuoco a lungo rifiutato. “Non conosciamo nessuno degli ostaggi, ma siamo qui comunque perché pensiamo che sia importante”, dice Annah, arrivata con i due figli di 9 e 12 anni.

Gli altri, padri, madri, nonni, fratelli, sorelle e amici dei 212 rimasti a Gaza, e in particolare quelli di chi sa già che i suoi cari non saranno fra coloro che verranno rilasciati oggi o nei prossimi giorni (i sodati, maschi e femmine, gli uomini e i ragazzi e le ragazze catturati al Supernova festival: nessuno di loro è incluso nell’accordo, che riguarda solo donne e bambini) erano comunque in piazza: mesti, ma non per questo meno determinati. “È un giorno importante. È l’inizio di qualcosa”, ci dice Daniel Rahamin, 70 anni, portavoce del kibbutz di Nahal Oz, che il 7 ottobre ha contato 14 morti e cinque rapiti. “Deve tornare ciascuno di loro, altrimenti non potremo più considerarci una nazione: quando gente come me, come i miei figli, come i miei vicini, è abbandonata per venti ore senza aiuto, lo Stato ha l’obbligo morale di rimediare. Altrimenti non è più tale”.

Daniel ieri ha passato il pomeriggio sotto una tenda insieme ai membri della sua comunità: uno accanto all’altro, hanno pianto quando sono arrivate le immagini, sperando che in un giorno non lontano a sfilare sulle macchine della Croce rossa ci siano i loro amici. Una speranza condivisa da molti: il più importante, probabilmente, ieri era Joe Biden: “Non ci fermeremo fino a quando tutti gli ostaggi non torneranno liberi”, ha detto il presidente americano, sottolineando anche come per gli Stati Uniti le possibilità di estendere la tregua siano “reali” e lo stop ai combattimenti sia “un’opportunità fondamentale” per portare aiuti ai civili di Gaza.

I primi, di aiuti, hanno cominciato ad entrare ieri mattina: “Non bastano. Sono solo una goccia in un mare di disperazione”, dice un operatore umanitario che vuole restare anonimo. Poco lontano dalla tenda dei sopravvissuti di Nir Oz intanto, ieri pomeriggio Lea e Josep, nipoti di Ohad e Raz Ben Ami, 57 e 55 anni, portati via da Be’eri, sedevano su un gradino da soli, in lacrime: “Dobbiamo continuare a sperare. Dobbiamo continuare a venire qui e a fare rumore”, rispondevano a chi chiedeva come stessero. “Non è la fine questa, deve essere l’inizio”. Un’idea condivisa da molti ieri sera a Tel Aviv e in tutto Israele.