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di Davide Frattini

Corriere della Sera, 11 febbraio 2024

A Rafah sono quasi due milioni, stretti nella morsa israeliana. Ma il raìs ripete che non intende “accettare l’espulsione del popolo” palestinese dalla Striscia di Gaza. Lo “scatolone di sabbia”, come lo chiamano gli storici egiziani, collega due continenti e si estende per 60 mila chilometri quadrati. Quelli cruciali sono però 14 in lunghezza. Una linea di demarcazione che l’esercito egiziano presidiava ancora prima dell’invasione israeliana nella Striscia di Gaza. Adesso che le truppe di Tsahal premono su Rafah, il valico di confine, i generali al Cairo - uno di loro è diventato presidente - dispiegano carrarmati e mezzi blindati, rendono ancor più invalicabili i muri di cemento alti nove metri srotolando in cima il filo spinato.

Abdel Fattah Al Sisi avverte di considerare qualsiasi afflusso forzato di palestinesi nel nord del Sinai come una violazione che sospenderebbe l’accordo di pace del 1979, il primo firmato da Israele con una nazione araba. Il raìs l’ha ripetuto pure ad Antony Blinken, il segretario di Stato americano, durante l’incontro del 6 febbraio e lo fa ripetere ai suoi emissari da talk show: “C’è una differenza tra ospitare e curare qualche migliaio di feriti e accettare l’espulsione di un popolo”, ha proclamato in televisione il commentatore Hani Labib. Anche la Lega Araba “si oppone al piano per svuotare la Striscia, è una minaccia alla stabilità regionale”.

L’allarme è stato creato dalle sparate nei mesi scorsi dei ministri ultranazionalisti che fanno parte della coalizione israeliana al potere. E adesso dall’ordine del premier Benjamin Netanyahu di preparare il piano per spingere gli sfollati a tornare verso il nord di Gaza devastato dalle bombe, da cui sono fuggiti all’inizio dell’invasione. Allo stesso tempo ha chiesto allo stato maggiore di progettare l’incursione militare nelle aree di Rafah, dove ormai sono ammassati in quasi 2 milioni: i bombardamenti sono già più intensi, oltre 40 morti ieri, mentre i palestinesi uccisi in 127 giorni di conflitto hanno superato i 28 mila. Il primo ministro - rivela il telegiornale del Canale 12 - è convinto di avere fino a Ramadan, il mese più sacro per i musulmani che quest’anno inizia il 10 marzo, per completare l’operazione a Rafah.

Il nord della penisola egiziana che unisce l’Africa all’Asia è zona di guerra già dal 2014, da quando Sisi decise di stroncare i gruppi ispirati allo Stato Islamico e qualunque organizzazione ispirata ai Fratelli Musulmani, dopo aver represso il movimento nelle metropoli e averne deposto il leader Mohamed Morsi dalla presidenza. Le ruspe e il tritolo dei genieri hanno spianato una zona cuscinetto lungo il confine con Gaza profonda almeno un paio di chilometri, secondo alcune organizzazioni raggiunge il doppio.

Human Rights Watch e la Sinai Foundation for Human Rights hanno documentato le evacuazioni decretate dal Cairo che hanno spopolato Rafah - 70 mila abitanti - e le aree attorno a El Arish, capitale del governatorato, “dove solo nel 2018 sono stati distrutti 3.500 edifici in seguito alla minaccia espressa da Al Sisi di usare “estrema violenza e forza brutale” contro gli estremisti. Il governo egiziano è anche intervenuto per fermare i traffici sotto la sabbia allagando i cunicoli e costruendo barriere che scendono in profondità nel terreno.

I palazzotti della vecchia Rafah sono stati demoliti per tagliare i collegamenti tra le famiglie - estese fino a diventare clan - da una parte e dall’altra della città. Per anni hanno trafficato attraverso le gallerie: sigarette, alcol, droghe, medicinali, armi. È stata Hamas, quando ha tolto con un golpe il controllo della Striscia al presidente Abu Mazen, a trasformare il contrabbando casalingo in commercio militare, costruendo gallerie sofisticate in cui potevano passare anche veicoli.