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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 24 novembre 2023

È insensato e folle dividersi tra “Team Palestine” e “Team Israel”. Chi è intorno scenda dalle barricate fondamentaliste. In queste settimane, ormai sono quasi due mesi, abbiamo visto e letto moltissimo di quanto sta accadendo ai confini di Israele e dentro Gaza. Gli indici di lettura e condivisione attivi su Corriere.it lo confermano: il conflitto mediorientale ci chiama e ci infiamma da sempre, forse più che mai in questa crisi sconvolgente. Ci siamo divisi e continuiamo a farlo come se appartenessimo a due squadre. I sostenitori di “Team Israel” e “Team Palestine” - come ha scritto l’editorialista Simon Kuper sul Financial Times - sanno come sono andate le cose prima ancora di leggerle o ascoltarle nei notiziari, a volte prima ancora che accadano. Sanno già dove sta “la verità”, perché la verità è quella che meglio rispecchia le loro/ le nostre convinzioni, ossessioni o più semplicemente identità.

È come se guardassimo con un solo occhio, impedendoci di aprire l’altro. A questa visione ristretta contribuiscono sondaggi folli che propongono il quesito (irricevibile): “Stai con Hamas o con Israele”? Nel frattempo, dentro un perimetro che non basterebbe a confinare una provincia italiana, israeliani e palestinesi sono talmente schiantati dal rispettivo dolore che per ciascuno diventa impossibile intercettare anche solo il riflesso della sofferenza dilagante dall’altra parte. Paradossalmente, erano proprio gli abitanti dei kibbutz devastati il 7 ottobre quelli che provavano a mettere insieme i pezzi. E le persone. Ne ha scritto meglio di tutti Yuval Noah Harari, storico e filosofo, la cui famiglia ha radici in uno dei villaggi del pogrom. Questa estraneità sul baratro sembra il rovescio del finale di una poesia tra le più amate di Wislawa Szymborska. Nella lirica Ogni caso, l’autrice premio Nobel per la letteratura chiude un suo viaggio in versi tra gli accadimenti della vita - un millimetro in più o in meno, a destra o a sinistra, che ti fa schivare un colpo letale - con un invito a sorpresa: “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.

Immaginare un riconoscimento dei due popoli nel dolore suona insensato, persino oltraggioso, mentre il conto dei morti, anche civili, nella Striscia aumenta e non ha fine lo strazio di chi ha figli, anche bambini, mutilati o sequestrati durante la mattanza. È tuttavia soltanto nella reciprocità che si potrà cominciare a ricostruire. Perché il diritto all’esistenza dello Stato ebraico non può essere messo in discussione. Perché devastare Gaza per uccidere anche l’ultimo terrorista non significherà scongiurare che altri ne escano. In un incontro d’estate, lo psicanalista Vittorio Lingiardi spiegò meravigliosamente il senso della parola “reciproco”, che deriva dal tardo latino recus-procus. Un movimento di andata e ritorno, qualcosa che va e viene: fare un passo indietro per vedere chi è la persona, non più coperta dalla tua ombra, ti permetterà di fare un passo avanti lungo il tragitto di una relazione.

Questo è il compito di quanti sono attorno, che - sempre suggerimento di Kuper - dagli spalti possono sventolare la bandiera del “Team Humanity”. E, che con mente e cuore più sgombri dei protagonisti, hanno il dovere di ragionare su quanto salire sulle barricate dei fondamentalismi preconcetti non sia poi questa grande sfida o provocazione. Al contrario: è il modo di rinunciare a combattere, ricorrendo rumorosamente al kit di convinzioni e slogan che ti viene assegnato. Il più incandescente degli alibi per non dover pensare, prendere decisioni, magari cambiare un poco idea.