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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 5 febbraio 2024

Come a Gaza, in Cisgiordania le strutture sono nel mirino. Blocchi, irruzioni, sparatorie. I bambini pagano il prezzo. “Il mio Ahmed non respirava, l’ho portato a braccia, in mezzo ai tank. Troppo tardi, è morto davanti ai medici”. Muhammad ricorda nei dettagli la notte di dicembre in cui le forze armate israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Jenin. La gente da dietro le finestre guardava il cielo, per capire se il campo sarebbe stato bombardato un’altra volta. Muhammad e i suoi vicini hanno preso i bambini e sono corsi verso l’ospedale vicino, il posto considerato più sicuro, e si sono nascosti nelle corsie, lì hanno aspettato la fine dell’incursione. Poche ore dopo si è diffusa la notizia che i mezzi militari si fossero ritirati ed è tornato a casa con la moglie e i tre figli, due bambini di sei e quattro anni, e l’ultimo appena nato, ma i soldati israeliani erano ancora nel campo, nascosti nelle case, e sui tetti. Muhammad e i suoi vicini hanno cominciato a correre, hanno attraversato il quartiere di Somaran e raggiunto un’altura.

Lì, poco dopo, sono stati raggiunti da un razzo. È svenuto per qualche minuto, poi ha ripreso i sensi, cercando di capire cosa fosse accaduto, ha guardato la sua mano, non vedeva l’anulare, pensando fosse abbassato. Ma non c’era più. Poi ha provato ad alzarsi, ma non aveva più le gambe.

Da allora in poi è rimasto cosciente “vedevo le mie gambe amputate proprio davanti a me”. Quando due giovani sono riusciti ad arrivare le gambe erano a pochi metri da lui, ma nessuna ambulanza poteva raggiungerli. Bloccate dai mezzi militari israeliani che avevano circondato l’ingresso degli ospedali. Così due giovani l’hanno preso in braccio e hanno raggiunto l’ospedale a piedi. Una volta svegliato, dopo l’operazione, dice di aver pensato che per lui si fosse aperta la porta dell’inferno. Oggi Muhammad vive chiuso in casa, il suo amico Mustapha ha imparato qualche esercizio da fargli fare, va in visita da lui ogni giorno. Lo sposta dal divano alla sedia a rotelle che gli è stata donata da un’organizzazione umanitaria. Era l’unico a lavorare e oggi, per sfamare la moglie e i tre figli, deve contare sull’aiuto della sua famiglia. Fino a un mese fa lavorava in Israele. Questo, dice, rende il suo destino ancora più tragico. “Avevo un’autorizzazione, lavoravo in Isreale, a Qiryat Shemona, e Hatzor, lavorando con ebrei, il che significa che il mio supervisore era ebreo, il che significa che per loro ero “pulito”, che non ho mai rappresentato una minaccia”.

Dai suoi figli - I suoi rapporti con i datori di lavoro israeliani non avevano mai avuto un’ombra, nelle ultime settimane gli avevano chiesto “ma perché torni a casa? perché torni a Jenin, resta qui che sei al sicuro”. Sapevano delle incursioni quasi quotidiane, dei morti, della distruzione che avanza in Cisgiordania. Ma Muhammad voleva tornare dai suoi figli, da sua moglie. “È proprio perché i vostri militari entrano e escono dal campo continuamente, che devo tornare da loro”. Prima, una volta tornato da Qiryat Shemona e Hatzor, prendeva i bambini e li portava a giocare, a fare la spesa. Oggi non può più. I bambini lo guardano e dicono: “Papà è stato colpito da un aereo”. Hanno sostituito il desiderio delle costruzioni con quello di pistole giocattolo. “Hanno iniziato a comportarsi come i militari, nascondendosi in un angolo e nell’altro, perché è così, il ragazzo dice che vuole “programmarsi per la guerra”“.

Muhammad non si arrende, non compra le pistole giocattolo. Li fa uscire di casa il meno possibile. Quando sente il ronzio dei droni dice solo: passerà presto. Prima del 7 ottobre, nel 2023, le forze israeliane avevano ucciso 205 palestinesi in Cisgiordania, mentre i coloni israeliani erano responsabili di altri nove morti. Di questi decessi, 52 sono avvenuti solo a Jenin. Oggi, stando ai dati aggiornati del Ministero della Sanità di Ramallah la conta dei morti è salita 350, quella dei feriti a tremila.

Dalla seconda Intifada - Dalla scorsa primavera le forze israeliane hanno cominciato a condurre attacchi aerei in Cisgiordania, non accadeva dalla seconda Intifada, all’inizio degli anni 2000. Il 3 luglio, durante un’operazione militare durata due giorni nel campo profughi densamente popolato di Jenin, sono state sganciate bombe da aerei da combattimento e sono stati condotti attacchi con droni. Da lì in poi, la violenza non ha fatto che aumentare. Una delle ultime, violente incursioni, a dicembre, è durata 60 ore. Incursioni con una strategia comune, che coinvolge gli attacchi alle strutture sanitarie, diventati sistematici, così come la distruzione di strade e infrastrutture, condutture idriche e sistemi fognari.

Tra il 7 ottobre e la fine di gennaio, la Mezzaluna Rossa Palestinese ha documentato 160 incidenti in cui le forze israeliane hanno impedito il lavoro delle sue squadre in Cisgiordania e nell’annessa Gerusalemme est. Significa blocco delle ambulanze, strutture mediche circondate, significa dunque mancato accesso alle cure. L’esercito israeliano afferma di essere “obbligato” a ispezionare le ambulanze, sostenendo che “i terroristi si nascondano” lì e vicino agli ospedali e che le truppe cerchino di ridurre al minimo i ritardi. Medici, paramedici e operatori sanitari condannano: “La mancanza di rispetto per gli ospedali è sconcertante: da ottobre abbiamo assistito alla sparatoria e all’uccisione di un ragazzo di 16 anni nel complesso ospedaliero, i soldati hanno sparato più volte proiettili veri e gas lacrimogeni contro l’ospedale, i paramedici sono stati costretti a spogliarsi e inginocchiarsi per strada”, dice Luz Saavedra, coordinatore di Medici Senza Frontiere a Jenin.

L’esercito nel campo - Nei fatti, il blocco dell’assistenza sanitaria è diventata una procedura standard in ogni incursione: l’esercito entra nel campo seguito dai bulldozer, i cecchini si posizionano sui tetti, le squadre cercano depositi di armi e conducono decine di arresti, e le strutture mediche, compresi gli ospedali pubblici, vengono circondati dai veicoli armati e dai soldati israeliani. Una domenica di metà dicembre Ahmad, 13 anni, affetto da gravi problemi al sistema immunitario, si era svegliato nella sua casa di Al-Yamun, dieci minuti in macchina da Jenin. Non era la prima volta che suo padre, Mohamed Asaad Sammar, un bottegaio di 56 anni, doveva prenderlo in braccio, caricarlo in macchina e portarlo in ospedale. Nel campo di Jenin era in corso un’incursione. Non era la prima volta che raggiungere una struttura medica si sarebbe trasformato in un’odissea. Due mesi prima erano stati costretti a dormire in ospedale, bloccati lì dai combattimenti all’esterno. E ancora prima, mentre erano in clinica per una visita di Ahmed, la struttura era stata colpita da un razzo, e il cugino di Ahmed era rimasto ferito.

I check point - A dicembre ha provato a chiamare l’ambulanza. Ma le ambulanze erano bloccate, perché le forze armate israeliane impedivano ai mezzi medici di lasciare il parcheggio degli ospedali, il mal di stomaco e gli spasmi del ragazzo non facevano che aumentare, il ragazzo diceva “papà non respiro”, così, sebbene arrivassero notizie dei violenti scontri nel campo profughi, Mohamed non ha avuto scelta, l’ha messo in macchina, aiutato dal figlio maggiore, e si è diretto all’ospedale con la sua auto. Mezz’ora in macchina, per coprire un percorso che quotidianamente fa in sei, sette minuti, moltiplicati dai check point della sicurezza israeliana.

Ahmed diventava sempre più pallido, così suo padre è sceso dalla macchina, l’ha stretto tra le braccia e ha cominciato a camminare verso l’ospedale. Un video di quella mattina lo ritrae mentre sostiene il corpo del ragazzino, circondato dalle telecamere che stazionavano davanti all’ingresso dell’ospedale al-Suleiman. Di fronte all’entrata i soldati israeliani al lato di un tank che bloccava l’accesso. Mohammed Asaad Sammar non esita di fronte a loro, continua a camminare con Ahmed tra le braccia, attraversa l’area con le ambulanze bloccate e entra nel pronto soccorso. Quando finalmente riesce a stendere il suo corpo su una barella è troppo tardi. I medici che si sono avvicinati gli hanno chiuso le palpebre e l’hanno dichiarato morto.

Ogni giorno, da allora, cammina fino al cimitero. L’ingiustizia, dice, non è qualcosa di nuovo per lui, non è qualcosa di nuovo per i palestinesi. In qualche modo, dice, tutti hanno imparato a conviverci. Ma non riesce, né vuole, rassegnarsi alla morte di un figlio, di un ragazzino malato che nessuna ambulanza ha potuto raggiungere. Può succedere a chiunque, sempre. È successo a lui, da allora non ha pace. “Ahmed era solo un ragazzino di tredici anni. Che colpa aveva il mio ragazzo?”. La pioggia scende sul cimitero di al Yamun, Mohammed apre le mani coi palmi rivolti al cielo, abbassa la testa e prega.