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di Francesco Semprini

La Stampa, 18 novembre 2023

Viaggiano imbracciando fucili. Sulla “Piccola Gaza” piovono missili e volano droni israeliani, ma il nemico è l’Anp: “Ci ha traditi”. Due cavalli di Frisia assestati ai fianchi di un incrocio di strade sterrate definiscono l’ingresso del campo rifugiati di Jenin: “Benvenuti nella piccola Gaza”. Una polveriera a cielo aperto mappata dai droni israeliani da cui i palestinesi si riparano issando tendoni scuri da una palazzina all’altra del fitto abitato, macabri aquiloni che disegnano una copertura forzata e asfissiante di quell’immenso dedalo di vicoli e stradine. Non c’è slargo che non sia cadenzato da detriti lasciati dall’esercito israeliano nei raid divenuti sempre più frequenti già prima del 7 ottobre 2023, data dell’attacco terroristico condotto da Hamas al di là della striscia di Gaza.

Entriamo a “Camp Jenin” il giorno successivo a uno dei più intensi scontri che si sono verificati tra le Forze di difesa israeliane (Idf) e la resistenza interna, con un tributo di sangue per quest’ultima di 15 morti al termine di una guerriglia dai contorni della guerra che ha visto irrompere le forze dello Stato ebraico nel campo rifugiati. “Perché noi, perché qui?”, è il lamento di una donna seduta su una malconcia sedia di plastica mentre tenta di tenere in braccio il proprio bimbo. Ha poco più di un anno e una vivacità fanciullesca che viene domata dal paziente aiuto della sorellina di qualche anno più grande. Fatima, questo il nome della signora, spiega che “in quella palazzina c’erano solo donne e bambini ma l’Idf ha lanciato due razzi” che hanno carbonizzato il piano superiore. Saliamo accompagnati da Amir, che indica un cumulo di cenere sul pavimento di quella che era la sua cameretta. Tenta di recuperare un libro, lo raccoglie, lo sfoglia a fatica e ci guarda azzardando un sorriso, come dire “non tutto è perduto”.

Il mantra straziante di Fatima è comune alla quasi totalità dei circa 22 mila dannati - secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) - che popolano Camp Jenin. Una città nella città dove, almeno ad occhio nudo, non si vedono simboli dichiarati, come i vessilli verdi di Hamas, quelli neri della Jihad islamica palestinese o la miriade di bandiere che inneggia a gruppi e sottogruppi di diversa entità, ad esempio le Brigate Balata, la Brigata Nablus, la Brigata Yabad e la Fossa dei Leoni. Tutte però con un denominatore comune, una deriva estremistica che le distanzia sideralmente dall’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Ovvero quel punto di riferimento che del campo dovrebbe avere il controllo politico e militare, come di tutta l’Area A della Cisgiordania. Ne sono traccia evidente i giovani che pattugliano i vicoli imbracciando M-16 o Ar-15 modificati. Loro il sussidiario lo hanno messo da parte già da tempo, raccogliendo il fucile lasciato in dote dal padre arrestato o dal fratello maggiore morto durante gli scontri.