di Francesca Mannocchi
La Stampa, 28 agosto 2024
Soprusi e umiliazioni. Condizioni sempre più dure per i palestinesi. È il nuovo corso nelle prigioni israeliane imposto dal ministro Ben Gvir. Quando Abdul Massit Mutan è uscito di prigione, lo scorso aprile, i suoi figli non l’hanno riconosciuto. L’uomo che varcava la soglia della prigione di Ofer, in una tuta grigia, con la barba lunga, incolta e gli occhi anneriti dalle botte, non poteva essere il loro padre. Invece era proprio lui, Abdul Massit Mutan, 48 anni vissuti a Ramallah, ma con 25 chili di meno. Quando è stato arrestato nel 2022 Mutan era in detenzione amministrativa, senza un’accusa, cioè senza la possibilità di difendersi. È così che funziona per la stragrande maggioranza dei detenuti palestinesi.
Al secondo rinnovo della detenzione amministrativa, cioè dopo un anno, Mutan ha chiesto di parlare col capitano delle guardie carcerarie. “Mi dica qual è il mio problema. Perché mi tenete, qui? Non ho dato soldi a nessuno, non ho mai fatto parte di cellule militari, non ho mai partecipato a manifestazioni o proteste, perché mi tenete qui?”. Il capitano gli rispose che sapevano che tutto quello che diceva era vero, ma che avrebbe potuto forse rappresentare una minaccia per la sicurezza in futuro. Mutan, prima di tornare in cella disse solo: “non è giusto”. E il capitano rispose: “è così che vanno le cose in detenzione amministrativa e sono io a decidere chi entra e chi esce”.
L’arresto di Mutan era stato violento. I soldati di notte avevano sfondato la porta di casa sua, avevano chiuso i suoi figli e sua moglie in una stanza, lo avevano legato mani e piedi prima di portarlo nella vicina prigione di Ofer. Mentre lo portavano via pensava solo: “speriamo almeno che mi lascino curare”. Mutan, l’attivista sociale noto a tutti a Ramallah per lavorare con i giovani e le donne, aveva un cancro al colon. Per mesi non ha ricevuto cure né potuto vedere medici, finché una rivolta dei prigionieri ha costretto le guardie carcerarie a concedergli di essere portato in ospedale. L’hanno legato mani e piedi con le catene, è stato portato in un ospedale, è stato operato e dopo qualche settimana riportato in cella, ma in un’altra prigione a Ktziot, nel deserto del Negev. Era lì il 7 ottobre. Era lì soprattutto nei mesi successivi, quando nelle carceri israeliane tutto è precipitato.
Dopo il 7 ottobre - “Fino al 7 ottobre mi sono sentito regredito come essere umano. Spesso legato mani e piedi, senza sapere perché fossi lì, né quando sarei uscito, eppure sforzandomi riuscivo a sentirmi ancora un essere umano, con una parvenza di dignità. Poi siamo diventati animali”. Sono numerosi i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle Nazioni Unite che da mesi denunciano lo scandalo delle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Innanzitutto uno sguardo ai numeri: dal 7 ottobre i detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane sono più che raddoppiati.
Stando agli ultimi dati, di Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, una Ong palestinese, nelle prigioni israeliane sono detenuti più di 9.500 palestinesi di cui oltre 3.500 in detenzione amministrativa, cioè senza accusa e spesso senza la possibilità di vedere né legali né familiari, per sei mesi rinnovabili per quattro volte. Cifra che non include i detenuti di Gaza, trattenuti in strutture separate dell’esercito israeliano. I dati sono confermati anche dalle Nazioni Unite e da HaMoked, un gruppo israeliano in difesa dei diritti umani che si occupa di raccogliere i dati dalle autorità carcerarie. Tra i 9.500 detenuti palestinesi, ci sono sia i presunti miliziani catturati durante i raid militari nei territori occupati, ma anche migliaia di persone arrestate per aver pubblicato un post sui social media critico nei confronti di Israele. O per aver partecipato a gruppi di attivismo politico, anche non violento, come confermato da un recente rapporto delle Nazioni Unite. E ci sono circa 500 minorenni.
Per tutti, l’inizio dell’offensiva militare su Gaza ha coinciso con un sistematico cambio di passo: i prigionieri sono stati sottoposti a riduzione di acqua e cibo e ad alcuni di quelli con malattie croniche sono state negate le cure. Le percosse sono diventate più regolari e più brutali. Stanno emergendo storie terribili di violenza sessuale. Come nella prigione di Sde Teiman, una base militare nel deserto, dove è trattenuta parte dei palestinesi catturati nei raid della Striscia di Gaza. Dieci soldati sono stati accusati di aver sodomizzato un detenuto palestinese. Cinque di loro sono già stati rilasciati.
Intanto, in dieci mesi, sono 38 le morti accertate di prigionieri palestinesi nelle sole strutture militari. L’esercito israeliano ha detto ad Associated Press che si tratta di casi di prigionieri con “malattie o ferite pregresse causate dalle ostilità in corso”, senza però fornire ulteriori dettagli o evidenze. I medici del Physicians for Human Rights-Israel, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, hanno potuto leggere i referti delle autopsie di cinque dei detenuti morti in prigione. Due di loro presentavano segni di traumi fisici come costole rotte, mentre la morte di un terzo “avrebbe potuto essere evitata se ci fosse stata maggiore attenzione per le sue esigenze mediche”.
Un’inchiesta analoga ha consentito alla Bbc di avere accesso all’esame di un altro detenuto morto in prigione, Abdulrahman Mari. Il referto, analizzato da Danny Rosin, un medico del gruppo Medici per i diritti umani, parlava di lividi esterni anche sulla schiena, natiche, braccio sinistro e coscia, così come il lato destro della testa e del collo. Secondo Rosin “si può supporre che la violenza subita da Mari, manifestata dalle molteplici contusioni e dalle molteplici gravi fratture delle costole, abbia contribuito alla sua morte”. I funzionari israeliani hanno riconosciuto di aver reso le condizioni più dure per i palestinesi nelle prigioni, con il Ministro della sicurezza nazionale, l’esponente dell’ultra-destra religiosa Itamar Ben Gvir che si vanta pubblicamente che sotto la sua gestione le prigioni non saranno più “campi estivi”. Ben Gvir la chiama deterrenza. I prigionieri e le organizzazioni in difesa dei diritti umani li chiamano violenza, abusi, fame. Tutti i palestinesi con cui La Stampa è stata in grado di parlare in questi mesi, pur provenendo da prigioni diverse, hanno riportato dettagli analoghi e coerenti a un inasprimento sistematico della violenza.
A terra come i cani - Nei primi giorni successivi al mortale attacco di Hamas, ad Abdul Massit Mutan come agli altri detenuti nel Negev e nel resto di Israele, hanno portato via i vestiti, costringendoli a restare mesi con gli stessi stracci addosso, tagliato la corrente e cominciato i turni di aggressioni punitive. “Non erano più solo botte, portavano i cani per attaccarci. Li chiamavano i party delle botte. Arrivavano le forze speciali con le maschere e prelevavano un gruppo di detenuti a caso, prima di spostarci in una cella, legati. Poi ci facevano abbassare le teste e ci picchiavano in modo selvaggio. Quando ritornavamo nella nostra cella, i soldati avevano urinato a terra e sui muri”. Poi è toccato al cibo e all’acqua. Hanno iniziato a ridurre al minimo il cibo, tre cucchiai di riso a pranzo e tre a cena. E i corpi hanno iniziato a deperire. In un video che lo mostra appena tornato a casa, Mutan alza la maglietta grigia e sul suo petto si contano le costole una a una.
Quando è entrato in carcere pesava circa 80 chili. Quando è uscito, poco più di 50. “Non riuscivo a stare in piedi, avevo fame e insieme paura e orrore, e non chiedevo più di essere curato. Perché chi chiedeva di essere curato veniva picchiato ancora più duramente quando dall’infermeria tornava in cella”. Oggi Mutan è a casa, sta pian piano riprendendo peso e ha ricominciato le sue cure. Sa che potrebbe essere arrestato di nuovo domani, o tra un anno, se sopravvive.
Intanto fa i conti ogni giorno e ogni notte con la memoria delle umiliazioni e delle violenze subite. Tra tutte, due. Gli anziani che piangevano per la fame. E le visite. Quando nella prigione arrivavano i funzionari, o i ministri come Ben Gvir stesso, le celle - dice - diventavano uno zoo: “A terra come i cani, le nostre teste sul pavimento. Loro ci scattavano le foto, ci dicevano sporchi arabi e ci sputavano addosso”. Non una parola d’odio, non una sfumatura di rancore. Solo la cronaca dettagliata di mesi di umiliazioni che Abdul fa di fronte a suo figlio. Per non dimenticare, per far sì che non dimentichi nemmeno lui.