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di Nello Scavo

Avvenire, 4 febbraio 2024

Reportage da Burka, dove in poche ore è nato un nuovo insediamento di occupazione israeliano. Si contano oltre 290 tra “insediamenti” e “avamposti” illegali di Israele in Palestina. Dalla collina si vede Ramallah. Il fortino della politica palestinese è avvolto dalla nebbia del primo mattino. Non ci sarebbe metafora migliore. Ma è questione di minuti. Dalla colonna di polvere rossastra sbucano le camionette bianche. È il segnale: i ragazzi con i lunghi riccioli saltano giù e mettono in moto la betoniera. Nasce così la colonia ebraica di Burka.

Devono fare in fretta, per quando sarà finito il venerdì di preghiera islamico e comincerà il sabato ebraico l’insediamento dovrà essere abitabile. Gli occupanti israeliani gli daranno un altro nome. Non ci hanno ancora pensato, mentre versano quintali di cemento liquido sul terreno. C’è chi si prende la briga di scattare foto del blitz, armati di pale, scalpelli, stivali di gomma e facce sporche di malta. Uno di loro si commuove: “Vi rendete conto che la storia del nostro popolo avrà anche il nostro nome, quando racconteranno come i figli di Israele hanno riconquistato la loro terra anche qui?”. Di occupazione non vogliono sentire parlare. Dicono che nei libri su cui hanno studiato la Palestina non c’è, e che prima o poi Israele doveva riprendersi la terra degli antenati. Anche in molte scuole della Cisgiordania si studia il contrario: dal Giordano al mare i confini di Israele non ci sono. Una vecchia storia che alimenta le ragioni e i torti. E ognuno prende dal passato solo quel che fa comodo per il presente.

Anche sui numeri, ciascuno ha i suoi. Gli insediamenti in Cisgiordania ufficialmente stabiliti dal governo (a esclusione di Gerusalemme Est), sono 146. Una contabilità al ribasso che non vuole tenere conto degli “avamposti”, quelli che il centro studi israeliano “Peace Now” definisce come “insediamenti istituiti a partire dagli anni ‘90 senza l’approvazione del governo e considerati illegali secondo la legge israeliana”. Perciò con quello di Burka, la presenza in Cisgiordania degli acquartieramenti israeliani sale a 29. “Come si fa a parlare ancora di due popoli in due Stati - si lamenta un volontario di “Peace Now” - se poi in uno di quei due Stati si è infiltrato quello più aggressivo, ricco e militarmente meglio equipaggiato?”.

Non si sa ancora quanti andranno a vivere a Burka, ma in Cisgiordania a fronte dei 2,8 milioni di palestinesi oggi si contano oltre 700mila occupanti. I “fondatori” dell’ultimo insediamento lo sanno. E sanno anche che il cemento serve a scoraggiare chi in futuro volesse chiedere di rimuovere l’avamposto che guarda alla periferia di Ramallah.

Nel governo Netanyahu i coloni sono ben rappresentati dagli alleati di ultradestra, che nell’esecutivo hanno ministri e alti funzionari. Nell’ultimo anno alcune decine di coloni sono stati arrestati per le violenze contro i palestinesi, ma quasi tutti sono tornati a piede libero e non si ha notizia di processi in corso. Anche qui si preparano alla battaglia. Di solito sassi e Molotov contro piombo. Le milizie armate palestinesi di rado lasciano i campi profughi per salire fino alle colonie. Gli sfrattati devono vedersela da soli. Ai quattro lati del perimetro stabilito intorno a un uliveto secolare di Burka, ci sono le vedette armate di mitra. Più in basso, i blindati dell’esercito israeliano chiudono la strada e spianano le bocche dei fucili. I pesanti sassi squadrati, utilizzati dai coltivatori palestinesi per delimitare i poderi, vengono sradicati e messi a protezione del basamento su cui in mezza giornata viene costruita la torre d’avvistamento a protezione dell’accampamento che in poche ore vedrà anche l’arrivo di donne e bambini.

I militari israeliani circondano l’area, ufficialmente per proteggere i palestinesi dalle possibili aggressioni dei coloni. In realtà tengono alla larga i proprietari della terra e i giovani che da Ramallah vengono chiamati per salire fino a Burka e almeno protestare, ma con le mani in tasca. L’ordine è quello di tenere i nervi saldi e non prestare il fianco a chi vuole sabotare il negoziato su Gaza. Del resto quasi nessuno dei quasi 300 tra insediamenti e avamposti è mai stato rimosso. E non succederà neanche adesso che bisogna lavorare alla lista dei detenuti eccellenti che Hamas vorrebbe far scarcerare in cambio del cessate il fuoco di almeno sei settimane e della liberazione degli ostaggi israeliani.

I nomi che circolano sono soprattutto quelli del leader carismatico Marwan Barghouti (condannato a 5 ergastoli e 40 anni di detenzione in Israele), Ahmed Saadat, segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e condannato per l’omicidio del ministro israeliano Rehavam Zeevi nel 2001; Abdullah Barghouti (67 anni di carcere); Hassan Salama (46 ergastoli); Abbas Al-Sayed (35 ergastoli) e Ibrahim Hamed (56 ergastoli).

Il piccolo monte degli ulivi fuori Ramallah intanto ha cambiato aspetto. L’ampia gettata di cemento liquido si va solidificando. Il basso torrione di pietra dove alloggeranno le ronde di sorveglianza è oramai pronto. Per adesso il tetto è di lattoneria sforacchiata. Ma non sarà la pioggia a spegnere l’espansione delle colonie e la rabbia dei palestinesi.