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di Domenico Quirico

La Stampa, 6 novembre 2023

La bara con la bandiera di Israele, l’uomo nel sudario musulmano. La morte di Dio spinta in trincea, impigliata nel Talmud e nel Corano. Cosa resta di comune nei due fronti, se non un pianto senza via d’uscita. Oggi in Palestina la sola cosa che ha un significato è il dolore. La possibilità della speranza è un salto che si deve fare per disperazione, in quel punto in cui non essendoci più assolutamente nulla su cui contare, politica, diplomazia, ragione, diritto, si è costretti a contare soltanto su ciò che è opposto al mondo, il soffrire appunto.

Scorro le fotografie di Fabio Bucciarelli, scattate in Israele e in Cisgiordania (Gaza è vietata, Gaza è una guerra senza sguardi, da spiare attraverso gli occhi di altri). Non me ne vorrà se non parlo delle sue immagini come fatto estetico, della qualità del bianco e nero, il color d’ombra riservato agli scatti tra i palestinesi e i colori, accecanti, di quelli che fissano gli israeliani. A indicare la continuità di un aspro seguito di pene da una parte; e dall’altra, quanto iniziato con il sabato di sangue firmato da Hamas. Conosco Bucciarelli, so che la sua fotografia sa esplorare le tenebre. Come tutti i buoni testimoni soffre, cava sangue ai suoi scatti, patisce la veglia del Tempo e ne raccoglie le agonie, rivela la sua camera oscura.

La sensazione che raccolgo è di esser colti in flagrante per ogni elemento umano che è in noi, e di esser in balia di testimonianze implacabili. Le rovine per esempio, le speculari rovine della guerra, contratte, ammucchiate, lunari pietre delle catapecchie palestinesi rase al suolo e lunari pietre delle auto calcinate nei kibbutz devastati. Calcinacci nel tempo e nei luoghi eguali a se stesse. Ci lasciano nudi, ci strappano qualcosa. Tutto è posto dietro a tutto. Tutte le distruzioni infinite di settanta anni sono dentro ognuna di queste contemporanee distruzioni. Si cammina con lo sguardo lì in mezzo e non si finisce in nessun posto. Ci accorgiamo, stupefatti, che non riusciremo a trovare la strada che cerchiamo per portarci fuori da questa guerra; non ci sono strade in uno spazio così ristretto come la Palestina. Come ogni volta in questi interminabili settanta anni veglieremo la notte ma non arriverà la mattina della pace, della coesistenza. Forse che i periodi in cui ebrei e arabi non si sono combattuti non sono stati, anche questi, soltanto brevi periodi di pace incivile?

La memoria, le memorie, il fanatismo che oltrepassano la Storia, che comandano nella notte, che minacciano, che impongono la loro tenacia, sono come una magia nera inesplicabile, unica che scorre nei volti dei due funerali, uno furente, quello palestinese l’altro più composto. I funerali e le donne dolenti. Scrutiamo quei volti, la bara con la bandiera d’Israele, o il corpo avvolto nel sudario musulmano. In quei cimiteri siamo usciti dal tempo, i confini, i Muri si riducono solo a un luogo dove porre i piedi su un poco di identica sabbia viva.

Siamo in un luogo che dovrebbe costituire un gigantesco altare all’aperto. Una isola d’oro della fede, intatta come una nuvola in cielo, è diventata bunker e carta topografica militare allo stesso tempo. Con la vita e la morte di Dio trascinata in trincea, impigliata nei reticolati del Talmud e nei posti di blocco del Corano, senza via di uscita.

Dietro queste foto che cosa resta di comune, nei due fronti che si può condividere se non il dolore? Per il resto da ben prima del sette maggio affiorano solo aforismi propagandistici, che sono controsensi, grida di guerra, propositi pieni di odio, auguri di catastrofi accettate purché, alla fine, perisca anche il nemico. Per arrivare alla reciproca orribile affermazione che “in Israele non ci sono persone non coinvolte”, “a Gaza non ci sono persone non coinvolte”.

A tutto ciò, a queste immagini, cosa opponiamo, noi parte perfetta del mondo, dopo aver ascoltato distrattamente questi aforismi rozzi e ottusi, discorsi privati e pubblici che manifestano solo la cruda volontà di uccidere, un nazionalismo invasato che abbiamo visto all’opera in mille luoghi e che non porta a niente se non a tragedie? I discorsi degli ultrà della Grande Israele e dei fanatici della jihad in tinta palestinese non erano, e lo sapevamo, esibizioni enfatiche di oratori senza cervello, ma programmi di azioni politiche concrete e preannunci di un tentativo di strage non appena giunto il momento ritenuto giusto. Ovvero il sette di ottobre.

Guardate le foto dei due eserciti, i miliziani in t-shirt e i soldati di tsahal abbigliati tecnologicamente. Da una parte i kalashnikov dall’altro le bombe da duemila chili: uccidono meticolosamente entrambe. Tutti i motivi di discordia, dalla nascita di Israele in poi, in cui ci si affanna penosamente lontano dalla Palestina a prendere con le pinze le ragioni e torti che potrebbero esser divisi, ormai entrambi invitano a trascurarli: chiedono solo una soluzione totale.

Uno solo è l’argomento vero su cui si ritorna sempre, quello delle origini: lo Stato di Israele e la Entità palestinese sono nati a torto, sono in se stessi una iniquità e un sopruso che si può correggere solo riportandoli alla inesistenza. Qualunque cosa faccia o dica l’altro è per natura ingiusto, definito, con formula sbrigativa, imperialismo all’occidentale o jihadismo medioevale. Una sentenza sommaria, senza sfumature, di una orrida teologia, una teologia della Storia, basata non su fatti futuri ma su un fatto compiuto, per questo irrevocabile come il passato.

Presto o tardi, dicono i palestinesi, il mondo arabo eliminerà Israele come ha eliminato l’effimero regno dei crociati, dei latini di Gerusalemme. E dall’altra parte la soluzione che spunta, ancora non detta, è quella di far tornare i palestinesi alla loro inconsistenza, ricacciarli verso una diaspora che questa volta davvero li inghiotta e li trasformi. Coloro che per coprire la volontà di nulla fare, parlano di far tornare a galla la formula “due popoli due stati”, sono grotteschi. Guardiamo queste foto: Israele esiste. I palestinesi esistono. Ma a cercare quello che li unisce si trova solo il dolore.