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di Ezio Menzione

Il Dubbio, 8 febbraio 2024

Verrebbe quasi voglia di dare ragione alla giudice ugandese Julia Sebutinde, che a fronte di una maggioranza compatta a favore delle misure contro Israele, ha steso una succinta ma chiara dissenting opinion con cui spiega perché non condivideva la sentenza (più esattamente l’ordinanza) del 26 gennaio: perché certe questioni, sostiene la giudice, vanno lasciate alla politica, lo scontro è politico e ad esso mal si attaglia lo schema giudiziario.

Lo scontro in questione è il giudizio intentato dal Sudafrica contro Israele per i crimini che questo sta commettendo a Gaza, dall’ 8 ottobre dell’anno scorso, il giorno successivo al tragico e dissennato raid di Hamas nei confini di Israele. Accanto alla Sebutinde, per la verità, si è schierato anche il giudice israeliano Barak (i due stati contendenti hanno statutariamente diritto a sedere accanto ai 15 giudici titolari nella Corte Internazionale di Giustzia - CIJ), nella risposta a 5 misure su 6: ma questi lo ha fatto evidentemente per tutt’altri motivi, vale a dire perché per lui il termine genocidio (attivo) non è nemmeno accostabile allo stato di Israele: sarebbe “moralmente ripugnante”, “osceno”, “oltraggioso”.

La questione è arcinota: il Sudafrica accusa Israele di avere commesso e continuare a commettere un genocidio nei confronti del popolo palestinese a Gaza. Ma vale la pena confrontarsi con un po’ di attenzione con l’ordinanza nel suo complesso, pagina dopo pagina. Prima di tutto si affronta la questione della titolarità del Sudafrica nel denunciare e chieder misure contro Israele. E fin qui la Corte si colloca in un solco ben collaudato: il genocidio è un crimine particolarmente atroce che va a colpire l’umanità intera nel suo insieme, ergo qualunque Stato che abbia sottoscritto la Convenzione sul genocidio ha titolo per denunciare e agire giudizialmente.

Israele ratificò la Convenzione già nel 1950 e il Sudafrica nel ‘ 98, poco dopo le prime elezioni democratiche del nuovo Stato. Ugualmente chiara e delineata la fase in cui la Corte si trova ad emettere una decisione: non una decisione definitiva, con sentenza che stabilisca se il genocidio c’è o c’è stato; ma una fase anticipatoria o cautelare (un provvedimento ex art. 700 C. p. c., diremmo noi, tanto per dare un’idea) che deve mettere capo a un’ordinanza con cui, in via appunto cautelare, si riconosca se sia “plausibile” parlare di genocidio in questo caso, così da formalizzare alcuni provvedimenti che lo Stato per ora soccombente sia tenuto ad adempiere, in attesa del giudizio vero e proprio, che sarà probabilmente non prima di tre anni, così che eventualmente gli atti genocidiarii non siano portati a ulteriori conseguenze e le prove eventualmente disperse.

Secondo la Corte il fumus indiscutibilmente c’è. In maniera abbastanza succinta (28 paragrafi su 74) si riportano i fatti incontestabili e incontestati: il numero dei morti; le condizioni di vita, o meglio di non- vita, dal punto di vista alimentare, idrico, sanitario; il displacement di due milioni di abitanti costretti a lasciare le proprie case e tutti gli altri orrori degli ultimi quattro mesi. Si riportano anche le osservazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e i recentissimi report dell’Unrwa del gennaio di quest’anno, e questo spiega almeno in parte gli attacchi americani (e meloniani, immmediatamente al seguito), ispirati da Israele, alla organizzazione dell’Onu sui rifugiati.

Dal punto di vista fattuale dunque il genocidio, stando al corpo centrale della sentenza, appare sussistente. Ma naturalmente perché sia integrato il crimine di genocidio occorre che si indaghi anche quale sia l’intento dello Stato che lo commette. Come in ogni reato, è il dolo che conta. Sul punto vi è ormai consenso su quanto ha scritto il professore Fausto Pocar, giudice nel Tribunale internazionale per il Ruanda, presidente del Tribunale penale internazionale in appello per la ex Jugoslavia e giudice titolare proprio alla Corte Internazionale, che ha steso sentenze basilari proprio in materia di genocidio, fissandone così i canoni interpretativi e applicativi.

Proprio su questo punto la ordinanza richiama molte dichiarazioni di esponenti militari e governativi israeliani: il ministro della Difesa Gallant che preannuncia “un assedio completo di Gaza, senza cibo, senza elettricità, senza combustibili” o il presidente israeliano Herzog: “È un intero popolo che è inequivocabilmente responsabile per ciò che è accaduto”. E così via.

Insomma, non solo ci sono i fatti, ma c’è anche l’intento di perseguire un genocidio di una parte rilevante del popolo palestinese, quello (più di 4 milioni) che abita o abitava fino a ieri a Gaza e ora è dovuto scappare. O per lo meno ci sono gravi indizi di tutto ciò, tali da convincere la Corte che vi siano rischi di ulteriori atti, civili o militari, in questa direzione.

Così essa decide che lo Stato di Israele deve cessare di porre in essere uccisioni e ferimenti di palestinesi; di infliggere danni alla popolazione palestinese, compresi i danni psicologici; di imporre deliberatamente condizioni volte a perseguire la sua distruzione; di imporre misure volte a prevenire o rendere più difficili le nascite in seno al gruppo; di cessare ogni incitamento a commettere genocidio; di prendere misure effettive per garantire i servizi di base e l’assistenza umanitaria; far sì che non vadano distrutte o disperse le prove di ciò che sta accadendo; presentare un rapporto completo su ciò che ha fatto per adempiere a queste misure entro un mese. Come sempre accade, di fronte a questa Corte, in caso di inadempienza, non è chiaro se vi sarà o vi potrà essere una qualsiasi sanzione efficace.

Dunque tutto sta alla vigilanza internazionale affinché gli atti di genocidio cessino. Ma, a questo punto, viene da chiedere, perché non accogliere la prima richiesta del Sudafrica, vale a dire imporre, per quanto possibile, la sospensione dell’azione militare e la cessazione delle ostilità da parte di Israele? Solo una tregua completa garantirebbe, forse, che nessuno di quegli atti venga compiuto. Per la verità, nemmeno la tregua o la pace potrebbero costituire una garanzia contro la manomissione o la scomparsa delle prove. Ma è vero anche che i principii di cautela e di prevenzione universalmente validi avrebbero suggerito (anzi imposto) la sospensione dell’azione militare. Forse proprio la difficoltà di rendere operativa una simile misura fa sì che essa non sia nemmeno espressamente prevista nella Convenzione e induca la Corte in generale a riconoscere il genocidio con molta parsimonia e con valutazioni politiche, come dice la giudice Sebutinde.