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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 11 marzo 2024

Aumentano le demolizioni delle case dei palestinesi a Gerusalemme Est. Quella di Abu Diab era lì dal ’67: non ha potuto neanche raccogliere le foto. “Sono illegali”, dice Israele. Ma i coloni da tempo pianificano l’espansione. Fakhri Abu Diab è un uomo rispettato da tutti, ha sessantadue anni e da trenta è il portavoce della comunità di Silwan, lotta contro l’occupazione, contro l’espansione degli insediamenti, contro la distruzione delle case dei palestinesi.

Meno di un mese fa, lui e sua moglie erano in camera come ogni mattina. Sono stati svegliati dai rumori dei mezzi militari israeliani che circondavano l’area della loro abitazione a Silwan, Gerusalemme Est. Prima hanno chiuso la zona, poi l’hanno circondata e hanno fatto irruzione in casa, hanno detto loro di raccogliere poche cose, poi li hanno aggrediti, cacciato l’uomo a calci fuori dalla porta, perché di lì a poco sarebbe iniziata la demolizione della loro casa. Abu Diab ha avuto tempo di accertarsi che i suoi figli, ai piani superiori stessero bene, che i bulldozer avevano già cominciato a buttare giù tutto. Non ha fatto in tempo a portare via quasi niente.

Oggi cammina sui detriti di quella che un tempo era la sua dimora mostrando ciò che alla demolizione ha resistito: le piante sui mattoni all’esterno del bagno, e una pentola coperta di cenere in cui sua moglie avrebbe preparato il pranzo quel giorno. Le pareti della cucina sono le uniche ad aver resistito. Era abituato a essere presente alle demolizioni, ad aiutare ogni palestinese che si ritrovava senza casa. Da un mese non è più solo la loro voce, è senza casa anche lui.

L’aumento delle demolizioni - L’ordine di buttare giù la casa di Abu Diab era pendente da quindici anni, per le autorità israeliane non aveva regolari permessi. Casa sua è stata costruita prima del 1967, anno in cui Israele conquistò Gerusalemme Est nella Guerra dei Sei Giorni: “Era stata costruita prima dell’occupazione, era più antica dell’occupazione”. Negli anni aveva chiesto di ampliarla, perché i suoi figli crescevano, si sposavano e la famiglia si allargava. Ma gli è sempre stato negato, come alla maggioranza dei palestinesi. Per questo, costruiscono “illegalmente”, secondo l’interpretazione di Israele, che però, occupa la parte orientale della città secondo il diritto internazionale: “I palestinesi chiedono i permessi e vengono tutti rigettati, mentre i coloni li ottengono in pochi giorni”. Mostra, al di là del cancello un nuovo edificio a sei piani, Uneton Horse, abitato dai coloni. Cento metri più in là, la casa abbattuta dei suoi conoscenti. “Erano anni che chiedevano la regolarizzazione, non l’hanno ottenuta ed è stata demolita. Nel 2022, abbiamo presentato più di 10 mila domande di autorizzazione alla Municipalità. Il 97% è stato respinto”.

L’aumento delle demolizioni a Gerusalemme Est coincide con l’espansione degli insediamenti israeliani, anche qui a Silwan, quartiere in cui vivono circa 60 mila palestinesi, particolarmente ambito dai coloni che, secondo la legge israeliana, se in grado di dimostrare che le loro famiglie vivevano a Gerusalemme Est prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, possono richiedere la restituzione delle loro proprietà, anche se le famiglie palestinesi abitano lì da decenni.

Alcune organizzazioni dell’estrema destra sionista che sostengono i coloni stanno anche portando avanti a Silwan un progetto per costruire strutture archeologiche, turistico-religiose. Due giorni fa, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha detto che la violenza dei coloni rischia di minare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese: “Le violazioni legate agli insediamenti hanno raggiunto dei livelli scioccanti, e rischiano di eliminare ogni possibilità pratica di creare uno stato palestinese”. La dichiarazione accompagnava un rapporto di 16 pagine sulla crescita delle unità abitative illegali israeliane basato sul monitoraggio delle Nazioni Unite e ha documentato 24.300 nuove unità abitative israeliane nella Cisgiordania occupata durante un periodo di un anno fino alla fine di ottobre, il numero più alto dall’inizio del monitoraggio nel 2017. Secondo lo studio, le politiche del governo israeliano “sembrano allineate, in misura senza precedenti, con gli obiettivi del movimento dei coloni di espandere il controllo a lungo termine sulla Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e di integrare stabilmente questo territorio occupato nello Stato d’Israele”. Dal 7 ottobre, secondo un rapporto preparato da due organizzazioni no-profit israeliane, Ir Amim e Bimkom Planners for Planning Rights, i comitati di pianificazione hanno avanzato 17 piani generali che coinvolgono 8.434 unità abitative per ebrei nelle aree di Gerusalemme oltre il confine del 1967. Circa tremila sono in fase avanzata di costruzione e hanno beneficiato di approvazioni eccezionalmente rapide da parte delle autorità urbanistiche. “Vogliono che ce ne andiamo - dice Abu Diab - e ora che l’attenzione è tutta sulla guerra a Gaza, si servono di questo momento per mandarci via. Noi andiamo via, i coloni si allargano e cambia la demografia di questa città. L’obiettivo è chiaro: vogliono spingerci fuori Gerusalemme una volta per tutte”.

Il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, aveva annunciato una politica intensificata di demolizioni a Gerusalmme all’inizio del 2023. I funzionari municipali avevano confermato ad Haaretz che Ben-Gvir esercitava pressioni sulla città per aumentare il ritmo, ma per gran parte dello scorso anno il numero era rimasto sostanzialmente lo stesso degli anni precedenti. Poi dopo il 7 ottobre le cose sono cambiate. Abu Diab ricorda che durante le precedenti guerre a Gaza, le autorità evitavano le demolizioni lì per allentare le tensioni, stavolta invece “la guerra contro le nostre case si muove parallelamente a quella di Gaza”. Da ottobre, secondo Haaretz, la Municipalità di Gerusalemme ha accelerato il ritmo delle demolizioni a Gerusalemme Est, con un aumento del 60% rispetto all’anno precedente. Si è passati cioè da circa dieci demolizioni al mese a 17. Abu Diab pensa che le ragioni siano due, la prima è andare avanti con i progetti di ampliamento degli insediamenti già pianificati per la zona di Silwan, la seconda è colpire lui in quanto rappresentante dell’intera comunità. Pochi giorni prima della demolizione aveva incontrato diplomatici, i funzionari delle Nazioni Unite, le Organizzazioni in difesa dei diritti umani:”Hanno distrutto casa mia per mandare un messaggio a tutti, e dire che nessuno, nemmeno le persone esposte e rispettate come me, possono stare tranquille”. All’ultimo incontro pubblico a cui aveva partecipato erano presenti anche i funzionari del consolato statunitense.

La condanna degli Stati Uniti - “È stato un leader schietto dell’intera comunità contro la demolizioni, e ora la sua è una famiglia di sfollati”, così, a poche ore dalla distruzione di casa di Abu Diab, il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha condannato le demolizioni, incoraggiando Israele a non prendere di mira altre abitazioni, perché “questi atti ostacolano gli sforzi volti a promuovere la pace e la sicurezza duratura che andrebbe a vantaggio non solo dei palestinesi, ma anche degli israeliani”, ha detto di fronte ai giornalisti. “Sono azioni che danneggiano la posizione di Israele nel mondo e, in definitiva, rendono più difficile per noi realizzare tutte ciò che stiamo cercando di realizzare e che andrebbe nell’interesse del popolo israeliano”.

Abu Diab, che non perde mai il controllo delle sue emozioni, né il sorriso pacato che lo accompagna, non dimentica che durante il loro incontro, i membri del consolato americano a Gerusalemme gli avevano detto: “Fakhri, sei troppo rispettato, vedrai che casa tua non verrà mai distrutta”. Perciò oggi, dopo averli ringraziati per le parole di solidarietà, si chiede perché nemmeno il principale alleato riesca a fare pressioni sul governo israeliano. Abu Diab dice che le ruspe non hanno demolito solo la casa, ma i suoi ricordi, la sua infanzia e quella dei suoi figli. In camera c’era una foto di sua madre con lui bambino, che non ha avuto tempo di portare via - dice - e niente potrà risarcirlo per questo.

La prima volta che è tornato tra le macerie in quella che era casa, ha costruito un recinto per gli uccelli e i polli che erano rimasti nel cortile. È una tradizione che gli aveva trasmesso sua madre e che lui aveva trasmesso ai suoi figli, seduti come lui, intorno a un tavolo di plastica, a guardare le mura che non sono più tali.

Abu Diab non smette di credere al dialogo. Non vuole odiare nessuno, non l’ha mai fatto. Con la distruzione di casa sua ha perso il profumo di sua madre, le memorie della sua giovinezza, dell’infanzia dei suoi figli. “Mentre parlo il flusso di ricordi duri mi attraversa la mente, è tutto sepolto. Demolire una casa non è solo demolire muri, la terra, i tetti. Hanno demolito il nostro futuro insieme al nostro passato”.