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di Francesca Caferri

La Repubblica, 29 ottobre 2023

Netanyahu cerca di tranquillizzare le famiglie dei rapiti. Che insistono: “Non importa come, riportateli a casa”. “Tutti per tutti”. Le parole sussurrate sabato mattina nella grande piazza davanti al museo di Tel Aviv da genitori, fratelli, figli dei 229 ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza diventano un urlo quando arriva la sera e, alla fine di un lungo braccio di ferro fatto di appuntamenti rimandati, minacce e compromessi, i rappresentanti delle famiglie si siedono di fronte al primo ministro Benjamin Netanyahu, all’ex capo dell’opposizione Benny Gantz e al ministro della Difesa Yoav Gallant.

“Siamo certi che uno scambio immediato tutti per tutti avrebbe un forte supporto nazionale”, dice uscendo dalla riunione Merav Leshem-Gonen, mamma di Romy Gonen, 20 anni, rapita al Supernova festival. “Qualunque tipo di negoziato sia in corso, li rivogliamo indietro tutti. In qualsiasi modo. Non ci importa che accordo dovranno fare. Tutti e subito”, le fa eco Malki Shemtov, padre di Omer, 21 anni, catturato nello stesso posto.

Quella fra venerdì e sabato, con l’intensificarsi dei bombardamenti e delle azioni di terra, per le famiglie è stata “la più orribile delle notti”, per usare parole loro: da lì, la decisione di alzare la pressione sul governo e chiedere con forza un incontro che ancora non si era concretizzato. Prima Gallant lo ha promesso per oggi: poi lo staff di Netanyahu, ben consapevole del peso della campagna senza sosta che queste famiglie stanno sostenendo in Israele e all’estero, lo ha fissato per la serata di ieri.

Ma ad alzare la posta e la tensione, se mai servisse, ieri ci aveva pensato anche Hamas: con un comunicato diffuso sul canale Telegram del gruppo, il portavoce del braccio armato, le brigate Ezzedine al Qassam, Abu Obeida, ha detto che il prezzo della libertà degli ostaggi è “svuotare le prigioni sioniste di tutti i detenuti (palestinesi ndr.)”. Un prezzo altissimo: non solo perché si parla di migliaia di detenuti e non solo delle 109 donne e della quarantina di minori di cui si era discusso finora, ma soprattutto perché chiede a Israele di mettere nel conto anche i detenuti “con le mani sporche di sangue”. Se raggiungesse questo obiettivo, Hamas potrebbe presentarsi agli occhi degli abitanti della Striscia e della Cisgiordania come l’unico interlocutore in grado di ottenere da Israele risultati in nome della causa palestinese, incassando una vittoria importante anche contro i nemici interni dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Non a caso, il portavoce dell’Idf Hagari bolla l’offerta come “terrorismo psicologico”.

Ieri nella conferenza stampa seguita all’incontro con le famiglie (la prima in cui ha accettato di rispondere alle domande dei giornalisti dal 7 ottobre), Netanyahu ha detto che la questione dello scambio “è stata affrontata nel gabinetto di guerra” senza però dare indicazioni su quale possa essere l’orientamento del governo. Il premier ha sottolineato in modo deciso che la liberazione degli ostaggi è una priorità e che l’operazione di terra “può aiutare a raggiungere l’obiettivo di distruggere Hamas e riportare a casa gli ostaggi”. Come le due questioni possano essere affrontate insieme però non lo ha spiegato.

Quello che appare certo è che le trattative per una liberazione dei rapiti restano in corso e con essa tutti i discorsi su cessate il fuoco, gli aiuti umanitari e la consegna di carburante. Lo confermano due fonti coinvolte a vario titolo nei negoziati e lo conferma anche il viaggio del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres a Doha, dove ha ringraziato il Qatar per la mediazione. Lo stesso Guterres ha poi telefonato al presidente egiziano al Sisi, che gestisce un canale parallelo di dialogo con Hamas.