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di Lucio Caracciolo

La Repubblica, 23 novembre 2023

L’annunciato scambio tra ostaggi israeliani catturati da Hamas e detenuti palestinesi nelle carceri israeliane è ancora in bilico ma può essere il primo raggio di luce dopo un mese e mezzo di guerra a Gaza. Accompagnato da una tregua di quattro giorni, potenzialmente prolungabile. Ma quanto avvenuto nella notte appena trascorsa conferma che le intese in piena guerra fra nemici mortali sono esposte a mille incidenti, malintesi o pretesti per sabotarle. Di sicuro Hamas resta “padrone degli orologi”. Con alle spalle la lunga ombra dell’Iran, che detta i tempi delle operazioni sul fronte Nord (Hezbollah) come su quello Sud, mentre la battaglia di Cisgiordania - centrale sotto ogni profilo - s’inasprisce.

Riportare tutti gli ostaggi a casa è obiettivo improbabile. Hamas ha mostrato di poterli centellinare per guadagnare tempo e costringere lo Stato ebraico a negoziati di tragico stile levantino, con qualche intermediario di troppo. Inoltre, non sappiamo quanti e chi siano i prigionieri della Jihad Islamica, che prende ordini solo da Teheran e talvolta li evade.

Se guardiamo oltre la cronaca, restano incerte tutte le partite strategiche riaperte dal 7 ottobre. Quando le armi taceranno ci sarà comunque un Israele e un Hamas, perché nessuno dei due può azzerare l’altro. Ma i rapporti di forza saranno molto diversi. Sul piano militare, l’organizzazione islamista uscirà seriamente indebolita, almeno nel breve termine. Sul piano della propaganda Hamas ha già vinto perché Israele va alla sostanza, il soft power interessa poco. Si è mai visto un qualsiasi soggetto politico che poche settimane dopo aver provocato un’orrenda strage di civili guadagna consensi ovunque perché viene percepito da buona parte dell’opinione pubblica non solo islamica o araba come vittima anziché carnefice?

Hamas rischia di impossessarsi in esclusiva della causa palestinese e di garantirsi un vasto bacino di reclutamento fra giovani aspiranti al martirio, in base al noto principio, inutilmente ricordato dagli americani a Netanyahu, che ogni terrorista morto ne genera una ventina. Israele non ragiona per generazioni ma per minuti secondi, considerandosi in permanente pericolo di vita.

Ma Gerusalemme può trarre vantaggio geopolitico dall’equazione Palestina=Hamas. E’ quanto immaginano i sostenitori dell’attuale governo di destra estrema, e non solo. Lo stesso Netanyahu afferma che una volta debellato Hamas non riconsegnerà Gaza ad altra struttura palestinese né intende accettarvi un protettorato internazionale. E il progetto di annettere Giudea e Samaria (Cisgiordania), confermato dal leader israeliano, è semmai accelerato. Né si esclude la penetrazione nel Libano di Hezbollah.

Tutto questo a condizione di espellere gran parte della popolazione palestinese dai territori occupati dopo la guerra dei Sei giorni e da allora contestati. Egitto e Giordania tremano all’idea di vedersi sommersi da milioni di palestinesi in fuga. Per Netanyahu si tratterebbe di sanzionare l’esistente: di fatto Israele controlla già direttamente o indirettamente - l’Autorità di Abu Mazen è pura maschera - lo spazio tra Mediterraneo e Valle del Giordano.

Operazione ad altissimo rischio, che susciterebbe enormi reazioni nel mondo. Ma che cos’altro significa la “vittoria decisiva” di cui parlano da qualche anno i vertici di Tsahal e le destre prevalenti nella Knesset? E che agli albori di Israele il movimento dei kibbutz traduceva nella formula dello “Stato socialista del popolo ebraico e degli arabi che vivono sulla Terra d’Israele”, distinguendo fra diritti nazionali e individuali?

Lo scenario opposto è l’impantanamento di Israele nella guerra al terrorismo. Ne conseguirebbe una crisi domestica senza precedenti. Al fronte patriottico delle prime settimane subentrerebbe il caos, con le tribù israeliane impegnate in mischia autodistruttiva. La liberazione degli ostaggi è festa provvisoria. Va goduta. Ma la festa della pace è molto lontana. A celebrarla sarà uno solo dei duellanti.