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di Domenico Quirico

La Stampa, 7 novembre 2023

Ci vantiamo di stare nel giusto, ma non facciamo nulla per dimostrarlo sperando che quello in Medio Oriente resti un “rassicurante” conflitto locale. Sfogliare un mese di guerra, senza convinzione, con il cuore pesante: come accade di fare una cosa aspra messa in conto ma che si vorrebbe rinviare e soprattutto non prolungare nel tempo. Già. Cosa c’è più lungo del tempo in guerra? Un mese da quel sette ottobre alla frontiera di Gaza è fatto di ore, pensieri, parole, dolori segreti e palesi, impennate e scoramenti. A rifletterci bene c’era in quei tragici giorni una occasione per tutto. Non per la pace.

Sono questi trenta giorni di guerra i momenti in cui qualcosa si scompone e non ha apparente ragion d’essere. Eppure quante guerre sono in corso nel mondo? Dicono, a contarle, decine forse cento, a iniziar da quella: sì l’Ucraina, che pensavano di potere chiamare la guerra con la G maiuscola. Sgrani un mese di immagini dei deserti di Palestina dove il cielo si dilata in biancori lattiginosi così spenti e svenati da sembrare che vi alitino le roche bestemmie delle artiglierie e dei razzi che sibilano, la polvere dei palazzi che si sbriciolano in buche che paiono fatte ad arte per ospitare tombe. E senti una sorta di trasalimento continuo, una insofferenza a uno stato di cose e un disagio che solleva apprensioni palpabili. Anche se non vedi, senti. Per Gaza immaginare una parola come “la fine” ha una tale immensità, di fronte al furore di ogni nuovo giorno, che sembra osatissima.

Faccio un tentativo, scelgo di negare il consueto modo di rievocare gli anniversari, lo svuoto dentro. Ovvero non mi accingo a mettere in fila e descrivere gli avvenimenti di questi giorni: l’incursione di Hamas dentro quelli che un tempo erano confini inviolabili dell’invincibile Israele, il massacro della giovane folla del “rave”, il pogrom nei kibbutz di confine, tangibile rimembranza di ciò che fu il sogno iniziale di Israele, idealista e comunitario in cui, forse, c’era posto anche per convivere con i palestinesi. E poi i bombardamenti minuziosi e spietati, l’operazione di terra, la guerra che plasma gli uomini, combattenti e vittime. I fatti, in ogni caso, sono sempre lì. Aspettano. Dicono e ridicono, sovrabbondano con la loro tessitura di strazi.

Ci inchiodano a una omissione che ci riguarda: da questa parte del mondo, guardando al Vicino Oriente e a questa mischia infinita, ci siamo isteriliti in un gioco di perenni attese, di viltà consapevoli, di mormorii di corridoio. Altro che raddrizzare con la nostra Giustizia il legno storto dell’umanità. Siamo dei santi senza aureola, degli ideologi senza idee, degli indecisi, dei risoluti ma al momento sbagliato. Siamo arrivati, con Israele e i palestinesi, tardi a tutti gli appuntamenti o abbiamo fatto finta di essercene dimenticati. Abbiamo blaterato sempre che siamo i giusti ma non abbiamo fatto nulla per provarlo veramente.

Ora ci rallegriamo, dopo un mese, degli egoistici e assai ipocriti sforzi americani per evitare che il conflitto “si allarghi”, tutta vernice sotto cui ruggisce la vecchia tiritera degli “interessi”. Noi speriamo che resti una rassicurante guerra “locale”, quelle che una tollerante rassegnazione rende sopportabili. Con i caschi blu arabi a far da pacieri! Arruolati nelle genti che smentiscono i loro accomodanti despoti e vogliono la scomparsa di Israele, come hanno dimostrato le piazze di questi giorni, da Amman a Tunisi. La aggiungeremo, la guerra del 2023, a quelle del secolo scorso, e alla infinita lista di attentati e di rappresaglie, solo un po’ più grande. Ma l’importante è che ne siamo lontani e possiamo permetterci, ancora una volta, di non capire la dignità della morte, il senso misterioso del dolore, quel cupo nodo di simboli e di significati che in modo lugubre e grandioso si accompagna sempre alla guerra.

Provo dunque a coniugare i verbi solo al futuro, a immaginare cosa può succedere domani e oltre, poiché tutti parlano di una guerra lunga, perfino quelli che agiscono in uno stato d’animo da repulisti, da facciamola finita. Il progredire della guerra o il suo ristagnare un tempo si misurava in chilometri, le avanzate e le ritirate, legate al mobilissimo e sempre insanguinato “fronte”. Questa operazione di Tzahal nella striscia di Gaza è scandita invece dall’aggiornamento di una unità di misura misteriosa, sfuggente. Ogni mattina Israele aggiorna il numero degli “obiettivi di Hamas” eliminati. Cosa significhi è incerto: i singoli militanti della organizzazione jihadista uccisi o neutralizzati? O anche qualcosa di inanimato, un bunker, un centro comando, un deposito di armi, un tunnel, uno dei razzi mobili che ancora provano a desolare anche le città di Israele? All’ultimo aggiornamento erano arrivati, i bersagli colpiti, a oltre quindicimila, e ogni notte se ne aggiungono, via via che l’avanzata metodica e lenta verso Gaza progredisce. Ogni tanto da quel cupo anonimato, “eliminati!”, in cui è impossibile inoltrarsi da speleologo, salta fuori un nome, il capo della sicurezza di Hamas, il comandante delle brigate di assalto del sabato di sangue, perfino un improbabile “capo della aviazione” e un “ammiraglio” terrorista...

Mi chiedo quale è il numero finale di eliminazioni, vere o presunte, che consentirà a Israele di proclamare la vendetta come compiuta e la vittoria, ovvero la eliminazione di Hamas ? Mi suggeriscono che il punto finale sarà la cifra di trentamila ovvero quanti erano secondo le stime le possibili reclute che componevano “l’esercito” di Gaza il sette di ottobre.

Forse è così. Forse Israele si illude. Bisognerebbe che i perseguitati diventino savi. Altri numeri incombono come macigni, ben più papabili e definiti. Un solo ostaggio, una soldatessa, è stato liberato nell’operazione. Novemila invece sono le vittime dei bombardamenti israeliani che non credo rientrino tra gli obbiettivi di Hamas eliminati. Non alimentano solo furori contro Israele, metton dubbi e veleni nell’alchimia difficile di ciò che lo Stato ebraico pensa di sé, della propria condizione umana e del proprio destino di popolo. Ci vogliono dopo un mese di guerra, subito! Visi nuovi e cieli nuovi, spade di giustizia e Muri, ma di vetro. Ci vuole che si sappia cosa è il dolore e lo spirito di buoni profeti.