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di Nicholas Kristof

La Stampa, 18 novembre 2023

Con il massacro bilaterale in corso in Medio Oriente, che continua a sprigionare veleni che acutizzano l’odio in tutto il mondo, permettetemi di delineare quelli che reputo essere tre falsi miti che infiammano il dibattito. Il primo mito da sfatare è che nel conflitto in Medio Oriente vi siano un lato giusto e un lato sbagliato (anche se si è in disaccordo su quale è l’uno e quale è l’altro). Nella vita niente è tutto bianco o tutto nero. La tragedia del Medio Oriente è che questo è lo scontro di un lato giusto e di un altro lato giusto. Ciò non giustifica il massacro e la brutalità di Hamas o la distruzione da parte di Israele di interi quartieri di Gaza. Dietro al conflitto, tuttavia, vi sono legittime aspirazioni che meritano di essere soddisfatte. Gli israeliani meritano il loro Paese, costruito dai profughi scampati alle tenebre dell’Olocausto; hanno creato un’economia hi-tech che conferisce potere alle donne e rispetta i gay, dando nel contempo ai suoi cittadini palestinesi più diritti di quanti la maggior parte delle nazioni arabe dia ai loro stessi cittadini. I tribunali, la libertà dei media e la società civile di Israele sono di ispirazione per l’intera regione, ma di fatto vi sono due pesi e due misure: i critici stigmatizzano gli abusi di Israele e spesso ignorano le violenze prolungate contro i musulmani, dallo Yemen alla Siria, dal Sahara occidentale a Xinjiang. Nello stesso modo, i palestinesi meritano un Paese, libertà e dignità, e non dovrebbero essere sottoposti a una punizione collettiva.

Abbiamo raggiunto una soglia straziante: in sole cinque settimane di guerra è stato ucciso l’uno per cento della popolazione di Gaza. Per comprendere questo dato, in percentuale e in prospettiva corrisponde a più della popolazione americana rimasta uccisa durante tutta la Seconda guerra mondiale nel corso di quattro anni. Una grande maggioranza dei palestinesi uccisi era formata da donne e bambini, secondo il ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas, e un indicatore della ferocia e della natura indiscriminata di alcuni bombardamenti aerei è che sono rimasti uccisi più di cento dipendenti delle Nazioni Unite, numero che - secondo le Nazioni Unite - è superiore a quello di tutte le morti di suoi dipendenti registrate dalla sua fondazione. Forse, ciò dipende dal fatto che, come ha detto un portavoce dell’esercito israeliano all’inizio del conflitto, “l’attenzione è stata data ai danni, non alla precisione”. “Siamo persone normali che cercano di fare la loro vita” mi ha detto a telefono un ingegnere di Gaza che disprezza Hamas e vorrebbe che fosse destituita dal potere, e secondo cui i combattenti di Hamas sono nei tunnel al sicuro, mentre lui e i suoi bambini sono tra le persone maggiormente esposte ai pericoli. “Siamo noi civili a pagare il prezzo”. A prescindere dal lato verso cui siete più propensi, ricordate che l’altro è fatto di essere umani disperati che sperano soltanto che i loro figli possano vivere e prosperare in una loro nazione.

Il secondo mito da sfatare è che con i palestinesi si possa procrastinare all’infinito, che essi possano essere sistemati da Israele, dagli Stati Uniti e da altri Paesi. Questa è stata la strategia del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Questo è stato il suo modo di evitare uno Stato palestinese. E per un certo periodo ha funzionato. Proprio come la pentola a pressione funziona, fino a quando esplode. È difficile conoscere “cosa sarebbe successo se”, sapere se uno Stato palestinese sarebbe stato meglio ai fini della sicurezza degli israeliani. In ogni caso, in retrospettiva la mancanza di uno Stato palestinese non ha reso sicuro Israele. E i rischi potrebbero aggravarsi qualora l’Autorità Palestinese sprofondasse in seguito alla sua corruzione, alla sua inefficacia e alla mancanza di legittimità. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che uno dei miliziani di Hamas che hanno perpetrato gli attacchi del 7 ottobre aveva con sé istruzioni per usare armi chimiche e questo ci deve rammentare il rischio da cui per anni ci hanno messo in guardia gli esperti di terrorismo in relazione ai gruppi estremisti che potrebbero ricorrere all’uso di agenti biologici e chimici. Israele ha il diritto di sentirsi preoccupato in ogni caso, ma temo che il modo migliore di garantirne la difesa possa non essere quello di procrastinare le aspirazioni dei palestinesi, bensì quello di onorarle con la soluzione dei Due Stati. Questa non è soltanto una concessione agli arabi, ma un pragmatico riconoscimento del vero interesse di Israele, e di quello del mondo intero.

Il terzo mito da sfatare è quello comune a entrambe le parti in conflitto, che la pensano suppergiù in questi termini: peccato che dobbiamo affrontare questa carneficina, ma dall’altra parte capiscono soltanto la violenza. Me ne parlano amici favorevoli alla guerra a Gaza che mi considerano benintenzionato ma malconsigliato, quasi fossi un ingenuo che non riesce a capire la triste realtà per cui l’unico modo di mantenere Israele al sicuro è polverizzare Gaza e sradicare Hamas a qualsiasi costo in termini di vite umane perse. Hamas di fatto capisce soltanto la violenza, ed è stata efferata nello stesso modo sia nei confronti degli israeliani, sia nei confronti dei palestinesi, ma Hamas e i palestinesi non sono la stessa cosa, proprio come i coloni violenti in Cisgiordania non rappresentano tutti gli israeliani. Io sono favorevole a colpire Hamas in maniera chirurgica e selettiva e sarei felice se Israele riuscisse a porre fine all’estremismo a Gaza. Fino a questo momento, però, temo che l’efferatezza e la mancanza di precisione dell’attacco di Israele abbiano concretizzato l’obiettivo di Hamas: far degenerare la questione palestinese e trasformare la dinamica in Medio Oriente. Hamas è indifferente alle perdite di vite umane palestinesi. Da questo punto di vista, Hamas forse sta vincendo.

A cinque settimane dall’inizio di questa guerra, non vedo niente da cui desumere che l’esercito israeliano abbia danneggiato Hamas in maniera significativa. Vedo, però, che ha ucciso un gran numero di civili, ha messo la lotta palestinese al primo posto dell’agenda globale, ha dissipato il rigagnolo di simpatie manifestate all’inizio a Israele, ha incalzato la gente di tutto il mondo a scendere in piazza per manifestare a favore della Palestina, ha distolto l’attenzione dagli israeliani rapiti e ha mandato in frantumi qualsiasi possibilità per Israele di normalizzare a breve termine le relazioni con l’Arabia Saudita. Il mio amico Roy Grow, esperto di relazioni internazionali al Carleton College scomparso nel 2013, aveva l’abitudine di dire che un obiettivo cruciale delle organizzazioni terroristiche è far sì che l’avversario reagisca in maniera sproporzionata. Paragonava questo modus operandi al jujitsu, per cui le organizzazioni terroristiche usano tutto il peso dei loro avversari contro di loro.

Proprio quello che ha fatto Hamas. Ogni lato ha disumanizzato l’altro, ma le persone sono complesse e nessuno dei due è un monolite. Ricordiamo, poi, che le guerre non riguardano i popoli, ma le persone. Si tratta di persone come Mohammed Alshannat, un dottorando di Gaza che sta spedendo messaggi disperati ai suoi amici che li condividono con me e che ha acconsentito a farmeli pubblicare per dare un’idea della vita a Gaza di questi tempi. “Sono in corso forti bombardamenti nella nostra zona” ha scritto in un messaggio in inglese. “Per salvarci dobbiamo correre e scappare. Ho perso due miei figli nell’oscurità. Io e mia moglie abbiamo trascorso la notte intera a cercare i bambini in mezzo a centinaia di bombe. Miracolosamente, siamo sopravvissuti e al mattino li abbiamo trovati svenuti. Pregate per noi. La situazione qui è indescrivibile”. Se esiste una strada da percorrere per arrivare alla pace - che si tratti di due Stati o di uno - inizia sicuramente dal nostro saper andare aldilà degli stereotipi. Gli israeliani non sono Netanyahu e i palestinesi non sono Hamas.