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di Paolo Giordano

Corriere della Sera, 11 ottobre 2023

Abbiamo ripensato a noi stessi, all’Occidente in senso largo, e all’illusione di vivere quasi spensieratamente. A Kfar Aza, Hamas ha sterminato i bambini di Israele. Kfar Aza è un nome che abbiamo sentito per la prima volta poche ore fa e che non dimenticheremo mai: l’esercito israeliano ha reso noto ieri che nel kibbutz sono stati trovati, fra le decine di morti lasciati da Hamas, anche quaranta bambini, alcuni dei quali decapitati, e alcuni dei quali ancora neonati. Forse un editoriale dovrebbe interrompersi qui, lasciare che quest’unica frase irradi attorno a sé il suo portato, in onde concentriche. Lo sgomento, o meglio la nausea fisica che mi è capitato di provare ieri, sono reazioni più esaustive di molti ragionamenti. Ma qui abbiamo l’obbligo, o almeno l’abitudine, di intercettare queste onde e di provare ad analizzarle mentre ci stanno ancora attraversando. Consapevoli di muoverci attraverso un campo ideologico minato da ogni parte, in cui ciascuna frase viene passata ai raggi X perché dovrebbe contenere in sé la consapevolezza di decenni di violenze, quando è evidente che non può farlo. Ma consapevoli anche che certi eventi costituiscono dei salti quantici, delle singolarità tali da meritare quel coraggio.

È strano e irriverente da dirsi, ma la strage del rave sembra quasi rientrare, all’improvviso, in un ambito di normalità. Nel suo modo scandaloso di pesare gli orrori uno rispetto all’altro, la nostra mente la pone a confronto con i bambini decapitati, e sceglie. D’altronde, i ragazzi e le ragazze del rave ballavano a cinque chilometri dal confine con la Striscia, erano stati avvisati della possibilità di colpi “sporadici” di artiglieria, e comunque erano maggiorenni. I bambini erano in casa loro e probabilmente dormivano.

La tentazione comune è stata da subito di considerare quanto è accaduto sabato 7 ottobre come una voce in più da aggiungere alla timeline del conflitto israelo-palestinese, un conflitto che con maggiore o minore intensità ha fatto da rumore di fondo all’interezza delle nostre vite. Ma alcuni elementi hanno reso chiaro fin dall’inizio, e forse per la prima volta in decenni, che quel conflitto era d’un tratto molto più vicino a noi, molto più rischioso, addirittura personale. Per il momento in cui è avvenuto, cioè dopo un anno e mezzo di una guerra di invasione dell’Ucraina che ha minacciato fin dall’inizio di espandersi; per la sovrapposizione, evidente o meno, di alcuni attori, dall’Iran fino all’assurdità di Ramzan Kadyrov, il “macellaio” ceceno che davamo per morto e che ora si propone come elemento di peacekeeping. Le notizie si sono innestate su un’inquietudine preesistente, hanno aggredito il nostro senso di sicurezza già fiaccato. D’un tratto Israele e Gaza non erano più “laggiù”, non erano la questione mediorientale.

Se la prima e la seconda Intifada, i razzi e gli attentati “sporadici” ci convocavano per lo più politicamente, come una specie di corollario delle nostre posizioni ideologiche, la carneficina del rave ci ha chiamato in causa come cittadini di stati democratici. Ci ha fatto ripensare a noi stessi, all’occidente in senso largo, come non succedeva da un po’, e alla nostra illusione di poter vivere quasi spensieratamente in prossimità di forze sempre più ostili e dirompenti, che contiamo di poter dominare, gestire con gli strumenti avanzati in nostro possesso, o ignorare e basta. Ci ha ricordato che il nostro vivere democratico è in fin dei conti una fede, come ne esistono altre, evidentemente non conciliabili, ed è una fede che contiene grani di responsabilità storiche incastonati al suo interno, impossibili da rimuovere.

Ma l’eccidio di Kfar Aza è ancora diverso. Ci interroga come esseri umani, punto. È sempre Israele-Palestina, certo, ma fuoriesce dalla cornice, per quanto ci si sforzi di allargarla. Credo che nemmeno l’anti-israeliano più irremovibile, nemmeno il più consapevole delle privazioni e della violenza a cui la popolazione di Gaza, con i suoi bambini, è da lungo sottoposta, possa oggi immaginare sé stesso al posto dei terroristi che hanno fatto irruzione nelle case di Kfar Aza. Ma nessuno di noi può escludere che avrebbe potuto trovarsi in una di quelle case. Ogni sforzo delle prime ore di racchiudere ciò che sta accadendo nella narrazione fino a qui del conflitto israelo-palestinese è saltato e si rivela adesso, nella sostanza, un tentativo di normalizzazione a nostro esclusivo beneficio. Tutti i “cosa vi aspettavate?”, i “non conoscete la storia della Palestina?”, i “nulla di nuovo sotto il sole” vengono polverizzati da Kfar Aza.

A Kfar Aza, Hamas ha sterminato i bambini di Israele e in questo modo ha sacrificato anche i bambini che vorrebbe vendicare o proteggere, i bambini di Gaza, sapendo di farlo. Quanto a noi, il terrore fondamentalista, quello buio e cupo del triennio 2015-2017, quello dei kamikaze e delle teste mozzate è tornato a mostrarsi, con il suo vuoto di senso buio e impossibile da maneggiare. È tornato in un continente già traumatizzato da una guerra in corso, negli anni più difficili dalla seconda guerra mondiale. Che epoca ci è stata assegnata per vivere? È questa la domanda idiota che mi trovo a formulare di continuo in queste ore.

Nell’estate del 2018 ero presente a uno degli ultimi interventi pubblici di Amos Oz, a Taormina. Quel giorno ero stanco per non so quale motivo e ricordo di essere stato titubante sull’andarci, ma alla fine mi ero costretto. Le parole che Oz aveva pronunciato sul fanatismo, sul suo gene “cattivo” che sarebbe presente in tutti noi, sono fra quelle che mi sono trovato più volte a ripetere negli anni. Il fanatismo, disse a Roberta Scorranese che lo intervistava, “è il rischio più grande del nostro tempo”. Lo shock dei totalitarismi ha raggiunto la propria data di scadenza, i giovani non lo conoscono direttamente, quindi sono più vulnerabili. Eppure aveva una calma di fondo, Amos Oz, anche nel parlarne, anche nel parlare di terrore, una specie di ottimismo pacato ma non privo di fermezza. Concreto. Sulla questione territoriale, continuava ad avere fiducia che prima o poi si sarebbe arrivati a una divisione pacifica della Palestina in due stati, “un doloroso compromesso” per il quale aveva lottato più di sessant’anni e che avrebbe infine risolto una lotta tragica “tra giusto e giusto”. Si augurava un finale alla Checov per quella tragedia, in cui tutti i protagonisti sono tristi, arrabbiati e delusi ma almeno sono vivi. Non un bagno di sangue shakespeariano. Ora sappiamo che il finale non è checoviano. Non so se in Shakespeare ci siano anche finali con bambini decapitati, ma qui sì. Intanto Amos Oz non c’è più e la cura per quel gene con cui sperava di vincere il Nobel per la medicina al posto di quello per la letteratura non è mai sembrata lontana, irraggiungibile come adesso.