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di Giovanni De Luna

La Stampa, 12 novembre 2023

Gli stereotipi negano la complessità, appiattiscono i problemi semplificandoli, lasciano riemergere le leggi, approssimative, dell’alba dell’umanità. Dal 7 ottobre tra il popolo palestinese e quello israeliano si è scavato un baratro di odio che oggi appare incolmabile. Se in tutte le guerre l’avversario diventa un nemico, in quel conflitto particolare i due popoli si dichiarano nemici da sempre e si comportano di conseguenza. Da entrambe le parti si combatte con la determinazione di chi pensa di essere dal lato giusto della storia, proponendosi l’obiettivo di annientare il nemico: non di sconfiggerlo militarmente ma proprio di cancellarlo dalla terra. Hamas vuole buttare a mare gli israeliani, Israele vuole sradicare il fondamentalismo da quello che considera il suo territorio. In questo contesto, a ogni efferatezza commessa sul campo si accompagna una visione bestiale del nemico, con il dilagare di stereotipi tanto ovvi quanto brutali: da un lato l’ebreo ricco, tronfio della sua opulenza, forte di una incontestabile superiorità tecnologica che ne rafforza il tradizionale egoismo; dall’altro l’arabo infido, sanguinario, violento e vile, che non affronta mai il nemico in campo aperto.

Quella guerra, quindi, come tutte le guerre, è una tragedia umanitaria ma anche una catastrofe culturale. Gli stereotipi negano la complessità, appiattiscono i problemi semplificandoli, lasciano riemergere le leggi, approssimative, dell’alba dell’umanità: la vendetta, la rappresaglia, la legge del taglione, quella dell’occhio per occhio dente per dente. Secoli di civiltà giuridica appaiono schiacciati sotto il peso dei luoghi comuni; e soccombono anche le lezioni della storia.

Nelle guerre del passato la logica dell’annientamento non ha mai portato fortuna a chi l’ha sbandierata. Solo in quelle coloniali dell’Ottocento, quando la sproporzione delle forze in campo a vantaggio delle potenze europee era evidente, l’annientamento del nemico e l’incorporazione del suo territorio si rivelarono obiettivi vincenti. Non fu così nel ‘900. Quando Mussolini aggredì l’Etiopia, non aveva intenzione di sconfiggerla militarmente ma di occuparla e farne una colonia per il nostro “posto al sole”. Sappiamo come è finita: solo cinque anni dopo l’ingresso delle truppe italiane ad Addis Abeba, l’impero africano del Duce si sgretolò sotto i colpi degli inglesi e dei fedeli del Negus.

Anche i progetti di Hitler sugli sconfinati spazi dell’est europeo e sulle popolazioni slave che li abitavano non prevedevano una soluzione diplomatica. Nel “nuovo ordine europeo” vagheggiato dal nazismo l’area dell’Europa centro-orientale era destinata a diventare una colonia di popolamento (nella quale trasferire parte della sovrabbondante popolazione tedesca) e di sfruttamento; In Polonia, nelle repubbliche baltiche e nella stragrande maggioranza delle regioni dell’Urss, l’occupazione ebbe così i caratteri di una conquista violenta di territori e risorse con l’intento di una radicale riorganizzazione demografica e sociale (massacri e deportazioni di civili, distruzioni delle classi dirigenti) finalizzata alla colonizzazione tedesca del nuovo spazio vitale.

Questo progetto schiavistico si infranse a Stalingrado, sbriciolandosi di fronte alle truppe di Stalin. Lì, nella Israele di Netanyahu, queste lezioni della storia vengono ignorate così come quelle di una civiltà giuridica giudicata obsoleta, anacronistica nel suo formalismo, estenuata da una pratica che ha finito per svuotarla di ogni valore. La stessa insofferenza ostentata nella striscia di Gaza da Hamas nei confronti di una religione cattolica, i cui principi vengono giudicati sviliti dagli stessi “infedeli”. Tutto questo, come anche il dilagare degli stereotipi, si può capire quando lo si vede affiorare nelle scelte di chi è convinto di giocare una partita decisiva per la propria sopravvivenza. Non si capisce affatto se lo si ritrova invece nei comportamenti e nelle scelte di chi assiste da lontano a quella guerra, non ne sperimenta direttamente le sofferenze e i lutti e sembra esercitarsi in trasporti emotivi che somigliano molto a quelli del tifo sportivo.

Per i due contendenti la pace oggi sembra impossibile. Ma per noi che guardiamo a quella guerra dai nostri divani una riflessione sul modo di far finire quelle stragi è necessaria. Proprio nel nome della nostra storia e della nostra civiltà giuridica. Una pace ci deve essere per i due contendenti e una pace si stipula con il nemico. E spetta proprio a noi indicarne la via, a noi che possiamo permetterci la calma, la ponderatezza, il senno di poi di chi quelle vicende le ha attraversate in passato e vive oggi in una realtà che ci piace raccontare come “pacifica e operosa”. Quando dico noi parlo dei paesi dell’Europa occidentale di quelli che in quasi ottanta anni avrebbero dovuto imparare come i benefici della pace superino di gran lunga quelli dei bottini di guerra.

Abbiamo alle spalle due guerre mondiali, la Shoah, le tragedie dei totalitarismi: non ci siamo fatti mancare niente scannandoci nelle trincee della prima guerra mondiale, distruggendo le nostre città con i bombardamenti della seconda. Ma poi con la pace scoprimmo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’Onu, l’Unione Europea. Ed è proprio attingendo a quella tragica esperienza che possiamo indicare una via di uscita al conflitto tra israeliani e palestinesi che non sia solo il reciproco annientamento. La lezione l’abbiamo imparata sulla nostra pelle; trasmetterla agli altri non è un gesto di supponenza ma un elementare obbligo morale.