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di Pasquale Porciello

Il Manifesto, 11 novembre 2023

I bambini giocano e le loro voci riempiono le aule in uno dei cortili del complesso che ospita la Scuola d’Arte e l’Università libanese di Tiro. È una giornata di sole, fa caldo, a qualche centinaia di metri il mare è immobile e la luce entra dalle grandi finestre illuminando i teloni di plastica del Unhcr, le pile di materassi, i panni stesi ad asciugare e le poche cose che frettolosamente le famiglie scappate dal confine con Israele e ospitate in una delle tante strutture allestite per l’emergenza sono riuscite a portarsi dietro. Da un lato le lezioni, dall’altro gli sfollati.

Seduta ricurva su una sedia da scuola, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani in un secchio d’acqua, Mariam lava qualche indumento alla buona: “Non possiamo cucinare qui per i nostri figli, il cibo viene da fuori e spesso i bambini non lo mangiano perché non sono abituati. Non possiamo lavare per bene i vestiti, non abbiamo niente che ci appartenga qui, tutte le nostre cose sono là. Vogliamo solo tornare a casa”. Con lei nell’aula diventata stanza una folla di bambini e il marito Mustafa Hafiz che ci spiega come sono arrivati a Tiro: “Abbiamo preso i nostri figli e di notte siamo venuti qui in macchina. Degli amici ci avevano detto di questa struttura. Da un mese siamo qui. Un’altra mia figlia col marito è rimasta a Beit Lif (al confine). Non escono di casa. Ho detto loro di venire qua”. La guerra è a pochi chilometri. Di notte si sentono vivi i boati delle esplosioni a Tiro. Si combatte senza tregua dall’8 ottobre, il giorno dopo l’inizio della guerra tra Hamas e Israele, e il fronte è ormai il confine tutto, da Naqura, sul mare, alle Fattorie Cheba’a, occupate da Israele nel 1967 e contese tra Siria, Libano e Israele.

“Ci sono 11 strutture d’accoglienza dove abbiamo ricevuto circa 1.000 persone. Quattro sono qui a Tiro, sette a Hasbaya (governatorato di Nabatieh). Forniamo loro assistenza medica, cibo, servizi essenziali assieme a ong locali e internazionali” dice Bilal Kashmar dell’Unione delle municipalità di Tiro che gestisce la struttura. 25.705 sfollati secondo i numeri dell’agenzia Onu Iom (organizzazione internazionale per la migrazione) che lavora a stretto contatto con la croce rossa libanese e l’unità governativa di crisi, numero in lieve calo rispetto a fine ottobre quando erano circa 29mila. Alcuni cominciano infatti a trovare sistemazioni vere e proprie: sanno che anche una volta finita la guerra non potranno comunque tornare indietro fino a quando case e infrastrutture saranno rimesse a posto. Saida, Nabatieh e Tiro le tre città a maggiore affluenza; sette degli otto governatorati libanesi ospitano in 214 strutture private gli sfollati.

Il coordinatore umanitario in Libano Imran Riza ha rilasciato ieri un breve e chiaro comunicato stampa nel quale si legge: “Assistiamo di recente ad attacchi che uccidono e feriscono civili nel sud del Libano, tra cui donne, bambini e giornalisti. Inoltre danni ingenti sono stati inflitti a proprietà private, infrastrutture pubbliche, terreni agricoli, forzando oltre 25mila persone a lasciare le loro case. I contadini rischiano la loro vita per raccogliere le olive e il tabacco, loro unica fonte di sostentamento”. Molte delle montagne e delle colture al confine bruciano. Human Rights Watch ha già confermato l’uso di bombe al fosforo bianco da parte delle Idf (Israeli Defence Forces).

Il 5 novembre un missile israeliano ha colpito un’auto ad Ainata uccidendo una donna e le tre sue nipoti di 10, 12 e 14 anni. La figlia della donna e madre delle bambine al volante della vettura è sopravvissuta, ma è in stato di forte choc. I civili uccisi dall’inizio degli scontri al confine sono 14 in Libano e 2 in Israele. Il 13 ottobre Issam Abdallah di Reuters è stato ucciso dal missile israeliano che ha colpito l’auto sulla quale si trovava con altri colleghi di Al-Jazeera e Afp (Agence France-Presse) rimasti feriti e su cui era evidente la scritta press, come pure sui giubbotti e sugli elmetti che i giornalisti indossavano.

Oggi è previsto il secondo discorso del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah. Il primo era stato il 3 novembre, dopo un lunghissimo e inquietante silenzio durato per tutto il conflitto. Un discorso dalla solita forte retorica antiamericana e antisionista, dal quale era però emersa una volontà di non alzare il livello degli scontri, a patto che Israele facesse lo stesso. Più di trenta dei 128 deputati libanesi avversari del Partito di Dio hanno lanciato ieri, alla vigilia del summit dei paesi arabi e musulmani di oggi a Riyadh, assieme alla condanna di Israele un appello ai leader presenti affinché “aiutino il Libano a contrastare i tentativi di coinvolgerlo in una guerra totale (…) e si impegnino in tutte le arene internazionali, soprattutto Onu e Consiglio di sicurezza, per l’applicazione definitiva della risoluzione 1701” dell’11 agosto 2006 che sancisce la fine delle ostilità tra Hezbollah e Israele.

La guerra al confine intanto continua e almeno per il momento non dà segni di tregua.