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di Filippo Barbera

Il Manifesto, 2 novembre 2023

Nello spazio pubblico sul conflitto in Medio Oriente, assente la politica, domina la logica inquisitoria e un codice mediatico da “bene contro il male” per il quale ogni strage è legittima. Il conflitto Israelo-Palestinese ha trasformato il discorso pubblico in un processo inquisitorio. Le opinioni dissenzienti, le analisi storico-politiche, i “se” e i “ma” non sono ammessi. L’unica cifra possibile è la fede morale, conseguenza diretta della narrativa imperniata sullo scontro di civiltà. Come nell’Inquisizione, si percorre la via della sofferenza innocente per raggiungere il bene assoluto. Se l’obiettivo la vittoria del bene sul male, tutto diventa accettabile. Più di 3.000 bambini uccisi sono il prezzo necessario per “sconfiggere Hamas”; migliaia di famiglie sterminate e una popolazione assediata sono il tributo che si deve esigere per tracciare la linea che separa la civiltà dei buoni dal terrorismo palestinese. L’infrastruttura fondamentale della vita civile spianata da bombe e missili, è solo una tappa verso il bene.

La ricetta dell’adesione morale alla fede cieca, appunto tipica dell’Inquisizione, non risparmia nessuno. La difficile ricerca della verità storica e l’afflato verso la diplomazia e la politica, con tutte le loro sfumature, incertezze, dubbi conoscitivi e pratici, sono rimpiazzati dal codice binario della morale assoluta. In questa luce va inquadrato l’attacco al Segretario Generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, definito “amico di Hamas”. Peccato che il Segretario Generale abbia sostenuto l’esatto opposto, come si può leggere da questa traduzione testuale: “Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili - o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni. Noto con rispetto la presenza tra noi dei membri delle loro famiglie. Eccellenze, è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas”. La dichiarazione di Guterres ha però valicato il sacro confine che separa l’adesione morale, richiesta dagli inquisitori della fede, dal politeismo valoriale che, invece, connota la ricerca della verità storica e la responsabilità della mediazione politica.

La furia inquisitoria non risparmia nessuno: il dibattito pubblico ha sdoganato anche il “peccato di omissione”. Le istituzioni che non condannano Hamas, è perché lo sostengono. Chi non condanna pubblicamente Hamas e non ne prende le distanze pronunciando le cinque fatidiche parole: “Hamas è una organizzazione terroristica” è automaticamente etichettato come fiancheggiatore, antisemita, nemico dell’Occidente o terrorista tout court. Il tema, qui, non è tanto questo o quel giornale, editorialista, commentatore, giornalista, intellettuale o politico. Quanto lo stato di sofferenza generale del dibattito pubblico, il soffocante clima neo-maccartista, la caccia alle streghe che esorta a non esporsi, l’uso strumentale di dichiarazioni pubbliche per colpire l’avversario politico.

In questa atmosfera, i toni militanti dell’Inquisizione si saldano a quelli apparentemente più leggeri, ma proprio per questo subdolamente efficaci, della cronaca. Editorialisti indignati, servizi dei telegiornali a senso unico e commenti che ripropongono l’orrore dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, senza dare conto dell’evolversi degli eventi dopo tre settimane di guerra unilaterale. Un rumore bianco di fondo che unifica l’informazione, cancellando nei fatti le differenze. La cautela è la regola anche a sinistra: ogni servizio o commento deve iniziare con la condanna di Hamas, nel migliore dei casi. Nel peggiore, lì inizia e lì finisce.

Non si tratta solo di un fenomeno italiano, dal momento che elementi da mentalità inquisitoria sono presenti un po’ ovunque. Del resto, è vero che gli spazi di libertà critica e di analisi storico-politica sono ben diversi altrove. Un commento come quello del Financial Times del 30 ottobre: “Israele ha tutto il diritto di difendersi da Hamas, ma la punizione collettiva dei palestinesi intrappolati a Gaza deve finire” (a nome dell’editorial board, quindi specchio della linea ufficiale e collettiva del giornale), in Italia sarebbe considerato eretico dai e nei media allineati alla lotta del bene contro il male. È un atteggiamento tipico delle province dell’Impero, che sono spesso più zelanti dei centri di potere nell’interpretazione del canone.

La conseguenza tragica è la scomparsa della politica, sostituita dall’adesione ai principi della fede. Una teocrazia mediatica, sostenuta dal funzionamento ormai semi-automatico dei canali di comunicazione e dal senso comune che vi alberga. In tutto questo, l’unico spazio possibile per ristabilire il primato della politica sulla morale sarebbe quello di sostenere pubblicamente: “Non condanno Hamas”, consegnandosi così alla lapidazione pubblica, all’odio in rete e alla gogna mediatica. Sempre in attesa dell’avvento del Regno del Bene.