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di Ettore Sequi

La Stampa, 22 ottobre 2023

Secondo il diplomatico e politico israeliano Abba Eban, la storia insegna che uomini e nazioni si comportano più saggiamente quando hanno esaurito tutte le alternative. Siamo ancora scossi dall’orribile azione terroristica di Hamas contro Israele e profondamente toccati dalle terribili immagini di vittime civili palestinesi. Proprio per questo ci domandiamo se esista una alternativa di buon senso alle conseguenze possibili di questo orrore. Probabilmente si, ma occorre tenere conto di alcuni vincoli, locali e generali.

L’invito di Biden a Netanyahu a non ripetere gli errori americani è molto importante. Deve essere chiaro che non tutti i palestinesi stanno con i terroristi di Hamas, così come in Afghanistan non tutti i Pashtun sono talebani. Inoltre, non si può garantire la sicurezza solo con strumenti militari. Esiste una dimensione economica. A Gaza circa il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nel 2022 la disoccupazione superava il 46%, e il 60% tra i giovani tra i 15 e i 30 anni. Vi è anche un fondamentale aspetto “istituzionale” della sicurezza. La debolezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è in gran parte dovuta alla sua incapacità di assicurare servizi essenziali ai palestinesi della Cisgiordania e alla diffusa percezione di inefficienza amministrativa, prima ancora che politica, che favorisce tra l’altro la disaffezione di larghe fasce della popolazione palestinese a vantaggio di Hamas. Un eventuale intervento israeliano a Gaza dovrebbe poi tener conto della presenza di ostaggi. Oggi Hamas ne ha di tre categorie - israeliani, stranieri e palestinesi- che vorrà cinicamente utilizzare. È importante che eventuali operazioni di terra, durino il meno possibile e tengano conto del diritto umanitario e della necessità di evitare vittime civili poiché, oltre all’orrore della perdita di vite umane, ciò verrebbe utilizzato da Hamas per mobilitare le masse arabe e dividere le opinioni pubbliche occidentali. Questa crisi, infatti, si gioca in larga parte sul ruolo delle opinioni pubbliche: quella israeliana, scioccata e desiderosa di un’azione forte e dirompente; quella araba, e in generale islamica e del Global South, che ha un grande potere di condizionamento sulle leadership dei rispettivi Paesi, come hanno dimostrato recenti dichiarazioni di vari attori mediorientali; quella americana, soprattutto in un anno elettorale e con la presenza di ostaggi statunitensi; quelle europee, spesso erratiche e a volte contraddittorie. Battere Hamas significa anche non cadere in questa trappola.

Israele dovrebbe avere un’idea molto chiara di cosa significhi “distruggere” Hamas: le organizzazioni terroristiche altamente ideologizzate possono sempre rinascere sotto altra forma -Hamas 2.0?- o essere sostituite da altri attori votati al terrorismo (Jihad islamica?). Ciò che resta fondamentale è preoccuparsi del futuro di Gaza, sia in termini di status di governo della Striscia, sia in termini di ricostruzione economica ed erogazione efficace di servizi essenziali.

Quale può essere dunque “l’alternativa residua” dettata dal buon senso? A tempo debito, un atto di coraggio e di lungimirante visione da parte di Israele, Anp e altri attori arabi, con il sostegno di Paesi garanti. Tale “alternativa” passa attraverso la soluzione dei “Due Stati”; la creazione di uno Stato palestinese; un chiaro e definitivo riconoscimento dello Stato di Israele e della sua sicurezza; un processo di normalizzazione tra Israele e mondo arabo, peraltro già avviato; la rivitalizzazione della ANP come interlocutore autorevole e credibile.

Ci troviamo in una situazione nuova e certamente eccezionale che occorre trattare tenendo conto proprio della sua eccezionalità. Questa soluzione non dovrebbe escludere nessuno, nemmeno la Cina che dovrebbe vederne la convenienza e uscire dal riflesso condizionato che ciò che colpisce gli Usa è comunque vantaggioso. Il crescente ruolo cinese nei Paesi arabi e il suo rapporto con l’Iran potrebbe essere molto utile. E l’Europa? Deve ricordarsi di essere sé stessa, perdere la sua timidezza, superare le sue frammentazioni, avere consapevolezza delle sue origini. Solo così potrà avere un ruolo attivo.

Questa soluzione rappresenterebbe un atto di coraggiosa lungimiranza e di generosità. Lungimiranza, poiché si affronterebbe in modo strutturale un problema a lungo eluso. Generosità perché questo processo può forse essere avviato dagli attuali attori, ma sarebbe probabilmente realizzato da attori nuovi. Hamas ha già ottenuto il primo dei tre risultati che si era prefissata: dimostrare la possibilità di attaccare in profondità il nemico ebraico. Israele può evitare gli altri due: il blocco della normalizzazione con i Paesi arabi e l’indebolimento dell’Anp. Non si può tornare alla quiete apparente del 6 ottobre. Il passato non deve essere un destino eterno. E, affrontato il problema di Hamas, questa è forse l’unica alternativa di buon senso.