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di Carlo Renda

huffingtonpost.it, 10 aprile 2024

In 38 anni vissuti in una prigione israeliana per partecipazione alla lotta armata si è laureato in scienze politiche; ha scritto saggi e romanzi; si è preso altri due anni per traffico di cellulari in carcere; ha concepito una figlia; e ha vissuto fino in fondo, sulla sua pelle, gli effetti della guerra di Gaza. Togliere ogni aggettivo non rende meno crudo il racconto della morte di Walid Daqqa, il decano dei detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane.

Arrestato dal marzo 1986 per aver condotto come responsabile del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) il rapimento e l’omicidio di un soldato israeliano, Moshe Tamam, ha trascorso 38 anni in carcere ed è morto a 62 anni allo Shamir Medical Center, a sud-est di Tel Aviv, per una forma rara di cancro al midollo osseo che gli era stata diagnosticata nel dicembre 2022, qualche anno dopo la prima diagnosi di leucemia.

Condannato all’ergastolo per la sua appartenenza alla cellula armata, un’accusa che ha sempre respinto - la corte accertò però che Daqqa non era stato l’autore materiale del rapimento e dell’omicidio del soldato - la sua pena è stata commutata successivamente a 37 anni di reclusione. Nel 2018, però, i tribunali lo hanno condannato ad ulteriori due anni di detenzione per aver cercato di introdurre cellulari in carcere, con lo slittamento del suo rilascio fissato a marzo 2025.

Una vita passata in carcere, in quello che chiamava il “luogo senza porta”. Walid Daqqa si è laureato in scienze politiche; ha scritto romanzi per bambini (“The tale of the oil’s secret” ha vinto l’Etisalat Award nel 2018), saggi sulla politica palestinese e sulla psicologia dei carcerati, piece teatrali, di fatto affermandosi come intellettuale; ha concepito a distanza la figlia, con lo sperma trafugato fuori dal carcere - una pratica a cui i detenuti palestinesi ricorrono da anni. La piccola Milad, 4 anni, ha già un fascicolo aperto dai Servizi segreti israeliani a suo nome.

I legali di Daqqa non sono riusciti a ottenere un rilascio anticipato per motivi medici: diverse volte hanno ricevuto un rifiuto, negli anni si sono mossi la Croce Rossa internazionale, l’israeliana Physicians for Human Rights, Amnesty International (da ultimo sabato) e diverse altre ong chiedendo che venisse liberato. L’ultimo appello per la libertà condizionata è stato respinto dalla Corte suprema.

Amnesty ha sostenuto che dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 in Israele le condizioni di Walid Daqqa erano peggiorate sensibilmente, perché “torturato, umiliato, privato” delle visite dei familiari - la moglie Sanaa Salameh e la figlia Milad - e di cure mediche adeguate. Negli ultimi sei mesi è stato ricoverato due volte, ha visto il suo legale una volta sola. La sua morte è “un crudele promemoria della sistematica incuria medica israeliana e del disprezzo per i diritti dei prigionieri palestinesi”, denuncia Amnesty. Fonti palestinesi riferiscono che dal 7 ottobre 2023 sono 15 i detenuti morti in carceri israeliane; che altre 27 vittime si contano nei campi di detenzione aperti dopo l’ingresso nella Striscia di Gaza. Un bilancio di guerra, che non si vedeva dal 1967.

Il nome di Walid Daqqa non era finito neanche negli scambi che sono stati negoziati fra Israele e Hamas, che hanno portato al rilascio di 80 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi. Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir si è messo di traverso, pubblicamente. Ancora, domenica sera su X Ben Gvir ha scritto di dolersi del fatto che Walid Daqqa fosse morto naturalmente perché avrebbe preferito vederlo condannato alla pena di morte dovuta ai terroristi. La famiglia attende di riavere il corpo, la polizia israeliana ha vietato il raduno funebre ed è intervenuta per disperdere chi si stava recando nella casa dei familiari di Walid Daqqa a Baqa al-Gharbiyye, arrestando cinque persone.

Scriveva Walid Daqqa: “Fin dai primi istanti della loro vita i nostri figli comprendono la realtà dei muri, delle barriere e dei posti di blocco. Lo fanno molto prima che venga loro introdotta la parola occupazione. Ci poniamo quindi una domanda fastidiosa, della massima importanza per la loro educazione: come trasformare il sentimento opprimente creato da questa realtà in una forza per un’azione positiva, che potrebbe contribuire alla crescita costruttiva delle loro personalità giovani e in via di sviluppo?

Mentre pensavo se avrei dovuto usare la parola prigione con Milad, i ricordi dei miei anni di prigionia cominciarono a risuonarmi nella mente. In questi anni mi sono ritrovato a convivere non solo con una, ma con tre generazioni di prigionieri: il Padre, il Figlio e il Nipote. Forse è la pervasività del carcere nella vita dei bambini, attraverso le loro frequenti visite ai familiari incarcerati, che li riporta ai confini del carcere come prigionieri stessi.

In una delle mie storie dalla vita in prigione, intitolata “Zio, dammi una sigaretta”, un bambino detenuto di 12 anni mi ha chiesto una sigaretta. In circostanze normali, fuori dalle mura del carcere, avrei detto di no. Non vogliamo che i bambini fumino. Ma in questo ambiente mi colpì che il bambino volesse con questa richiesta crescere in fretta per poter meglio affrontare gli anni di reclusione che ormai si profilavano davanti a lui o magari riprendersi dalla violenza del suo arresto. Con l’atto di fumare, sembrava proclamare “eccomi, un adulto”.

Così ho dato una sigaretta al bambino. E in presenza di Milad ho finalmente pronunciato la parola prigione. Alla fine, ho seguito il suggerimento di Milad. Mi aveva insegnato l’importanza dell’onestà e della sincerità quando si allevano i figli. Alla fine, non importava se mi sentiva usare la parola prigione. Nel suo cuore aveva già sentito cosa significasse. È un luogo senza porta”.