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di Sebastiano Maffettone

Corriere della Sera, 27 dicembre 2023

Questo acceca chi vede messa a rischio la propria identità e è così incapace di vedere il dolore altrui, come nel caso Israele-Palestina. “La guerra è un inferno” (war is hell), la frase attribuita al generale William T. Sherman durante la guerra civile americana, vale in realtà per tutte le guerre. Che sempre portano con sé morte, distruzione, miserie, lutti, disperazione. Ciò ammesso, va anche detto che raramente siamo stati esposti a tutto ciò come negli ultimi giorni sul fronte Israele-Palestina.

Guerre, in verità, ci sono sempre state e spesso sono state crudeli come questa. Ma di solito non ce ne siamo resi conto, magari anche perché occupavano meno spazio sui media. O semplicemente perché erano lontane da noi, e riguardavano angoli sperduti di quello che una volta si chiamava terzo mondo. Ora, invece si combatte vicino e con la probabilità che un’espansione del conflitto possa riguardarci direttamente.

Lo storico Yuval Noah Harari ha detto -nel corso di un’intervista a Lilli Gruber nel programma 8 ½- che la maledizione della storia consiste nel volere salvare il passato, mentre bisognerebbe guardare al futuro. Ci sono, in altre parole, quelli che usano le ferite del passato per seminare l’odio, mentre invece si dovrebbero curare queste ferite per cercare la pace. Naturalmente, in questo momento è molto complicato fare qualcosa del genere.

L’efferatezza dell’attacco di Hamas rende infatti difficile se non impossibile fermare la reazione di Israele. La domanda, però, verte sulle ragioni profonde che spiegano la difficoltà o l’impossibilità di sanare queste ferite. Anche se spiegare - sia chiaro - non equivale a giustificare, e uccidere persone innocenti una alla volta, inclusi i bambini (come ha fatto Hamas), pur se trovasse una spiegazione non sarebbe giustificabile.

Ci sono, come sempre, diverse ragioni che possono spiegare lo stato di cose attuale. A cominciare da quelle geopolitiche. La principale tra queste è, come è ovvio, l’incapacità collettiva di affrontare seriamente la questione palestinese. Ma ci sono anche ragioni geopolitiche più generali, come per esempio il declino dell’egemonia degli Stati uniti e l’emergere di potenze regionali che rendono più semplice lo scatenarsi di conflitti locali non controllabili. Ma, a parer mio, c’è qualcosa in più. Le guerre di cui ci occupiamo in questi giorni non sono combattute (principalmente) per ragioni economiche e politiche tradizionali. Non si lotta in nome del comunismo o del capitalismo, e neppure per desiderio di maggiore libertà e eguaglianza. Contano di più, invece, ragioni identitarie.

Per dirla in maniera fantasiosa e paradossale, è come se nell’immaginario dei combattenti Marx e gli illuministi cedessero il posto a Freud. Cosa che tra l’altro appare con clamorosa evidenza se guardiamo a quanto accade in Medio-Oriente tra israeliani e palestinesi. Dove è chiaro che è in gioco il loro destino di popoli, con la loro storia, la loro religione, le loro forme di vita e tradizioni. Un pacchetto che nell’insieme costituisce l’identità di un popolo. Una riflessione del genere spiega anche la natura di gioco a somma zero di simili conflitti e di conseguenza l’atrocità cui assistiamo.

Semplificando al massimo, sulle questioni economiche e politiche si può trattare. Su quelle identitarie invece no, e la sfida rischia di essere totale. Questo rende così impervio cercare la pace da parte dei contendenti che hanno subito le ferite di cui si diceva. Questo acceca chi vede messa a rischio la propria identità e è così incapace di vedere il dolore altrui. Questo fa sì che sia indispensabile il pensiero di chi è al di fuori dal novero di quanti hanno subito offese nel passato ed è perciò più in grado di progettare il futuro.