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di Lucia Annunziata

La Stampa, 4 febbraio 2024

Netanyahu pressato da tutte le parti potrebbe alla fine cedere alla tregua. I Paesi arabi puntano ad arrivarci prima che inizi il mese sacro, l’11 marzo. Ultima chance, mentre lo scontro Usa-Iran rischia di degenerare. Gerusalemme Est. Nessun caffè caldo per gli ospiti. Nessun “Marhaba”. Anche la centrale Salah ed Din, Via Saladino, cuore della parte palestinese di Gerusalemme che raccoglie tutto il traffico che viene fin da Nablus, dal profondo della Palestina occupata, e si infila dritta verso Damascus Gate, persino questa strada piena di attività, tappeti, vestiti in mostra, uffici cambio moneta, e persino quel movimento continuo tipico del mondo arabo nel ritrovarsi, aggregarsi e lasciarsi, in strada, sembrano ridotti al minimo. Ecco, “ridotta al minimo” è forse la definizione migliore per raccontare una giornata a Gerusalemme. Ridotta al minimo è la vitalità, o forse la vita, di questo piccolo quadrante della mappa di una città che è il cuore delle religioni mondiali.

Più che in guerra la Gerusalemme che si vede qui somiglia a una città sotto Covid - più silenziosa, meno affollata, più frettolosa. Il che, tornando a quel che si diceva, è la somma di tre aggettivi che decisamente mai sono stati usati a raccontare la Palestina, in nessuna delle varie forme che ha preso la sua tragica storia nei tanti decenni che si contano dalla fine della seconda guerra mondiale.

Una terra, tante denominazioni - Non è un caso che questo piccolo pezzo di terra non abbia un nome solo. Quello che chiamiamo Palestina, è anche West Bank per altri, e per altri ancora sono Territori Occupati. La esorbitante energia di questa patria-non-patria è sempre stata movimento, rumore, denuncia, mobilitazione da parte della sua numerosa gioventù. Questa calma è dunque, mi immagino, segno di cambiamento, di attesa, di sospetto?

Nella ricca e curatissima piccola libreria che apre sul marciapiede della strada, tutti classici di questa lunga storia. Da “A peace to end all peace” di David Fromkin, sulla spartizione del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano, a “A line in the sand” di James Barr, al definitorio capovolgimento di prospettiva offerto da “Orientalismo” di Edward Said, il cambiamento è nella disposizione dei libri. I classici pur in bella vista sono lontani dalla vetrina, verso cui si proiettano i nuovi libri su memorie di famiglia, le confessioni in prima persona di donne e giovani, i romanzi di chi è cresciuto in campi profughi e non li ha mai dimenticati (quanto è rilevante nella storia di questi due paesi, Israele e Palestina, l’uso della parola “campi”?). In vetrina in mostra c’è un solo libro “Il militarismo digitale di Israele”. Quanti anni, quanti gusti, quanti modi di raccontarsi hanno le memorie dei popoli in guerra. E forse anche la semiquiete di questa strada non è altro che il silenzio di chi vive nell’occhio del ciclone.

Nei primi saluti telefonici che scambio con amici - israeliani e palestinesi - che non vedo da tempo, dopo la gioia di ritrovarsi arriva sempre un “stiamo aspettando”, un “vediamo che succede”, e quella parola che torna: “difficile”. Si qui è difficile. Soprattutto essere in mezzo a questo ciclone che, senza dubbio, nessuno pare controllare. E per questa lunga strada di Salah ed Din arriviamo dritti alla cronaca, alla politica, alle responsabilità delle classi dirigenti, che sono anche quelle nostre.

Tutte parole che si sintetizzano in un fatto ben concreto: un accordo che da settimane si cerca di firmare per arrivare a un periodo di cessate il fuoco che fermi una guerra senza limiti, per un rilascio totale degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e i prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Un pausa necessaria, non più rimandabile, intorno a cui ogni giorno, con fiato sospeso, si attende una buona notizia mentre ne arriva una regolarmente brutta. Il testo, concordato a Parigi pochi giorni fa dal quartetto dei capi dell’intelligence di Usa, Israele, Egitto e Quatar, è ora sui tavoli di tutti i protagonisti della guerra. I punti di cui si discute sono essenzialmente tre, il cui testo, inviatoci da una ambasciata europea, riproduco qui. Il primo: “Sei settimane di cessate il fuoco, durante le quali Hamas riunirà gli ostaggi per prepararli al rilascio. A questo punto si aspetta che siano rilasciati gli anziani, i malati, e i bambini.

Nel frattempo, i residenti di Gaza saranno lasciati liberi di muoversi nella striscia di Gaza; secondo: “Rilascio delle soldatesse in ostaggio, aumento dell’arrivo a Gaza degli aiuti umanitari, garanzie che gli ospedali potranno continuare a funzionare, così come le panetterie, e la fornitura d’acqua”; terzo: “Rilascio dei soldati maschi e dei corpi degli ostaggi uccisi”. Questo si pensa sarà il momento più delicato con Hamas che manterrà la capacità di ritenere prigionieri un limitato numero di ostaggi nel caso Israele rifiuti di rilasciare prigionieri “pesanti” in termini di sicurezza. Si parla in questo caso di Barghuti, il più popolare leader Palestinesi, il Mandela di questa storia, la cui liberazione è stata richiesta ufficialmente proprio in questi giorni da Hamas.

Il documento criticato - Non sarà semplice. E infatti sia Israele che Hamas, cioè i due combattenti di questa guerra, hanno criticato il documento. Che per ora è fermo. Più che una trattativa è dunque un carosello infernale di speranze sempre abbattute ma mai dismesse. Basta prendere ad esempio la giornata di ieri, un sabato 3 febbraio, che si potrebbe per altro definire una giornata senza grandi eventi. Se non fosse per un secondo bombardamento americano alle varie guerriglie dell’asse di alleanza dell’Iran. Morte 86 persone. Gli Usa rispondono così all’attacco in cui sono stati uccisi all’inizio della settimana tre soldati americani. Reazione derubricata con un “non si poteva fare diversamente in un anno elettorale” da parte dei media israeliani. Che, pure, segnalano un grande allarme sull’allargamento del conflitto.

Il nuovo attivismo Usa - In effetti comunque lo si voglia definire, il nuovo attivismo Usa, segnato dall’avvio di una missione della Us Navy nel Mar Rosso per difendere il commercio mondiale - portandosi dietro anche una missione Europea in fase di costruzione con un ruolo italiano rilevante tanto quanto il nostro Pil che ne viene toccato - ha fatto ripartire il paradosso di un Paese che è insieme mediatore e interventista. Ma tant’è: i paradossi sono il pane delle campagne elettorali.

Il no del governo Netanyahu e di Hamas, in aggiunta alle scelte americane, sembrano dare poco spazio al successo del piano. Ma il peso del dolore, che si accumula in questa tragedia nei corpi e nelle memorie di due popoli legati da un odio mortale, non può che spingere a procedere. Le ultimissime notizie su cui Israele e Palestina si arrovellano riguardano dunque un ulteriore cambio di scenario, che autorizza diverse possibilità.

Nelle perplessità di Hamas c’è qualche sorpresa: ieri ha intanto precisato che intende “continuare a studiare la bozza”. È pur sempre un’apertura, ma è anche un movimento interno all’organizzazione: in un rovesciamento di posizioni, l’ala militare, guidata da Yahya Sinwar, si è pronunciata a favore di una pausa di sei settimane (mentre finora aveva chiesto subito un cessate il fuoco) per avviare il processo mentre si continua a negoziare. L’ala politica ha richieste più credibili ma anche più definite: 3.000 prigionieri Palestinesi liberi, inclusi alcuni arrestati per il 7 ottobre, in cambio di 36 ostaggi civili. Questa differenza mette in mostra una dinamica dentro un gruppo finora molto monolitico. Anche se la posizione di Sinwar sembra una accelerazione dell’inevitabile crisi del governo Netanyahu che un sì di Hamas provocherebbe.

Netanyahu che a sua volta conosce benissimo la incertezza su cui sta seduto, ancora una volta ha ricevuto un aiuto dall’esercito. Il gabinetto di guerra ieri ha esaminato il testo dell’accordo e lo ha quasi respinto, ribadendo che Israele ha bisogno di continuare le operazioni militari. L’idea è quella di allargare l’attacco, dopo Khan Yunis, a Rafah, una città al sud di Gaza, dove vive più della metà dei 2.3 milioni di palestinesi che hanno lasciato le loro case. L’annuncio ha molto inquietato il governo Eu. Più che una trattativa è un dannato carosello di rifiuti e ricatti.

Ma la speranza è sempre alta. Ieri l’hanno tenuta in vita due fili da tessere. Il primo è una data, 11 di marzo, che ha cominciato a circolare senza necessariamente avere conferma. La data è l’inizio del Ramadan che dura un mese, e finisce il 10 aprile. È la festa più santa dell’Islam e per i mussulmani il digiuno e la calma in questo tempo prendono il posto della vita attiva: quale miglior modo per fare “atterrare” un complesso cessate il fuoco? Il secondo è l’annuncio dell’arrivo oggi, domenica, del segretario di stato Blinken in Medio Oriente. Una nuova missione che è la quinta o forse la sesta, ma certamente prova dell’ostinazione del diplomatico