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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 29 dicembre 2023

I raid battenti dello Stato ebraico spingono la popolazione a scappare da una città all’altra. Ahmed era un bambino di nove anni. È arrivato nell’ospedale di al-Aqsa a Deir Al-Balah - dove sono stati portati molti dei feriti degli attacchi aerei israeliani - 4 giorni fa. È morto lì dopo essere arrivato da un’area che avrebbe dovuto essere sicura, dopo l’ordine di evacuazione israeliano. Lo ha testimoniato Gemma Connell, a capo della squadra umanitaria delle Nazioni Unite a Gaza, che è nella Striscia da settimane. Il 25 dicembre, in un’intervista a Reuters ha descritto la situazione come una “scacchiera umana” in cui migliaia di persone, sfollate già molte volte, vivono in fuga senza la minima garanzia di raggiungere un luogo sicuro. La notte di Natale nella zona centrale e meridionale di Gaza è stata una delle più sanguinose degli ultimi mesi. Intanto, un fiume umano continua a ricevere ordini di evacuazione dall’esercito israeliano e si muove in massa, in cerca di un riparo che si rivela impossibile, perché le aree designate come sicure si rivelano o rischiose come quelle da cui provenivano o così tanto popolate da non poter garantire sostentamento e riparo per tutti.

Sono i numeri a parlare della tragedia umanitaria di Gaza. Secondo i dati delle Nazioni Unite 1.9 milioni di palestinesi - che corrisponde a circa l’80% della popolazione - sono stati sfollati interni. I bombardamenti indiscriminati di Israele sulla Striscia hanno danneggiato 250.000 unità abitative, e ne hanno distrutte 50.000, significa che più di un milione di persone, se pure i combattimenti cessassero domani, non avrebbero una casa sicura in cui tornare. L’offensiva israeliana sta spingendo la popolazione di Gaza sempre più a sud, la distruzione di case, infrastrutture civili, e i continui bombardamenti hanno reso Gaza ormai invivibile, col risultato che si sta delineando con crescente preoccupazione la possibilità di uno spostamento di massa dei palestinesi verso l’Egitto, prospettiva ancor più allarmante alla luce delle recenti, esplicite, dichiarazioni di funzionari israeliani che appoggiano l’ipotesi di quella che costituirebbe nei fatti una deportazione di massa senza una adeguata sistemazione ma soprattutto senza la garanzia, per centinaia di migliaia di persone, di un ritorno a casa una volta cessate le ostilità.

“Spingere per la deportazione irreversibile di centinaia di migliaia di persone mina la risoluzione di questo conflitto in mezzo a decenni di crisi dei rifugiati. La comunità internazionale ha il dovere di condannare in modo inequivocabile qualsiasi spostamento forzato di palestinesi, sia all’interno sia all’esterno della Striscia di Gaza”. A parlare è Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati, che il 26 dicembre ha ribadito che il trasferimento e la deportazione forzata dei palestinesi oltre confine costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale, cioè “un crimine atroce”. A rafforzare le dichiarazioni di Egeland, i numeri diffusi ieri dall’Unrwa che, denunciando lo sfollamento forzato, ha parlato di oltre 150 mila persone “bambini piccoli, donne incinte, persone con disabilità e anziani che non hanno nessun posto dove andare” costrette a sfollare di nuovo dalle aree centrali della Striscia verso la parte meridionale.

Dopo che le forze israeliane hanno rafforzato l’avanzata e intensificato le operazioni di terra nella settimana a cavallo di Natale, i civili sono in fuga anche dai popolosi distretti di Nusseirat, Bureij e Maghazi nel centro di Gaza e si sono diretti a sud o a ovest nella città già sovraffollata di Deir al-Balah, lungo la costa mediterranea, cercando riparo in accampamenti e tendopoli improvvisate, senza acqua e cibo a sufficienza. Metà degli abitanti di Gaza rischia la fame, e organizzazioni come Human Rights Watch e Oxfam, condannando le difficoltà di accesso degli aiuti umanitari nella Striscia, in questi tre mesi di guerra hanno più volte affermato che la fame viene usata come “arma di guerra contro i civili”. Sono stati distrutti o gravemente danneggiati i terreni agricoli, i mulini, i panifici e i magazzini alimentari. Dopo un mese dall’inizio della guerra, tutte le panetterie del nord di Gaza avevano chiuso per mancanza di fornitura di farina e carburante.

La direttrice regionale di Oxfam per il Medio Oriente e il Nord Africa, Sally Abi Khalil, la settimana scorsa, in reazione al rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification), che avvertiva della possibilità di un’imminente carestia a Gaza, ha detto che “la scioccante discesa di Gaza verso la fame era così prevedibile da essere premeditata, un crimine di guerra in corso da parte del governo israeliano”. Gli attacchi israeliani hanno decimato il già fragile sistema alimentare di Gaza in modo così catastrofico che la maggior parte delle persone non è più in grado di nutrirsi. “È ripugnante e difficilmente concepibile nel 2023 che il cibo sia usato come arma contro donne, bambini e neonati, anziani e malati. L’orrore provato da una madre incapace di allattare il proprio figlio è l’orrore di Gaza oggi”, ha detto ancora Abi Khalil. I video delle ultime settimane ne sono la prova. Mostrano centinaia di palestinesi che circondano i camion di aiuti alimentari, acqua e rifornimenti.

Un rapporto del Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) e Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani con sede nel campo profughi di Jabalia a Gaza, il 14 dicembre ha riferito che le persone vicino ai centri di distribuzione alimentare di Rafah dovevano aspettare in fila per dieci ore, per poi tornare a casa a mani vuote. Marwan, un palestinese fuggito verso sud con la moglie incinta e altri due figli piccoli ha dichiarato a Human Rights Watch di dover camminare ogni giorno per tre chilometri, col pericolo di essere colpito dai bombardamenti, per avere un litro d’acqua per i suoi bambini. Manca tutto, le squadre dell’Oms sul luogo descrivono persone distese sul pavimento in preda a forti dolori, in agonia, ma non chiedendo sollievo dal dolore. Chiedendo acqua. Non sono bastati, e sono del tutto insufficienti qualche centinaia di camion di aiuti entrati nella Striscia. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha chiesto “un flusso significativo, su vasta scala, ininterrotto e incondizionato di beni di prima necessità”.

Ma anche quando i camion riescono a entrare, i blackout rendono impossibile organizzare la distribuzione degli aiuti perché senza reti telefoniche e connessioni internet, le agenzie umanitarie non riescono a coordinare la consegna degli aiuti già difficile perché non c’è abbastanza carburante. Nella città principale del sud di Gaza, Khan Younis, ieri si sono intensificati i bombardamenti e a essere colpita è stata l’area intorno all’ospedale, a ovest delle posizioni israeliane. È proprio la situazione delle infrastrutture sanitarie a essere la più allarmante. Secondo l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere, la gravità delle ferite e l’enorme numero di pazienti stanno spingendo il sistema sanitario di Gaza a un punto di rottura anche a Sud, dopo il collasso nel nord. Chris Hook, a capo dell’équipe medica di MSF a Gaza, descrive medici che scavalcano i corpi dei bambini morti “per curare altri bambini che moriranno comunque”.

Oggi, secondo l’Oms solo 15 dei 36 ospedali della Striscia funzionano a pieno regime. Nell’ospedale di Al Aqsa, nella zona centrale di Gaza, dove opera Msf dal 1 all’11 dicembre, dopo la fine della pausa delle operazioni militari, circa un paziente su tre (640 su 2.058) è stato dichiarato morto all’arrivo. Nella sola giornata del 6 dicembre, il numero delle persone arrivate morte all’ospedale ha superato il numero dei feriti.

Dal 7 ottobre, nella Striscia di Gaza sono morte 20.900 persone e 55 mila sono rimaste ferite. La maggior parte sono donne e bambini. Mentre i palestinesi continuano a contare i morti, il primo ministro israeliano Netanyahu ha promesso di continuare la guerra “fino alla completa distruzione di Hamas”, incurante delle pressioni degli alleati. A conferma delle dichiarazioni di Netanyahu, le parole del ministro della Difesa Gallant e del capo di Stato maggiore Halevi: “L’offensiva a Gaza andrà avanti per mesi se non per anni”. Andrà avanti e intanto si intensifica, il numero dei morti cresce ed è sempre più chiaro che non esista un posto sicuro a Gaza.