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di Enrico Franceschini

La Repubblica, 24 ottobre 2023

Ecco chi ha fallito e chi potrebbe aspirare a diventarlo. Se Hamas verrà effettivamente sconfitta, il passaggio successivo sarà trovare una leadership autorevole che guidi la nuova fase. Ma il compito è arduo. Nel migliore dei mondi possibili, Israele riuscirà a smantellare Hamas da Gaza minimizzando le perdite fra i civili e gradualmente a restituire la striscia all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), il “governo” creato dagli accordi di pace del 1993, attualmente insediato soltanto in Cisgiordania, che fino al 2006 controllava anche Gaza. Dopodiché lo Stato ebraico e l’Anp rilanceranno il negoziato per creare uno stato palestinese e mettere fine al loro conflitto. A parte le difficoltà militari, questo piano, di cui parlano le indiscrezioni a Gerusalemme e Washington, ha tuttavia un problema politico: Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen, presidente dell’Anp dalla morte nel 2004 del suo predecessore Yasser Arafat, ha 88 anni ed è universalmente giudicato un leader in declino fisico e mentale, oltre che macchiato da sospetti di corruzione. Tutti vorrebbero farlo fuori, perlomeno politicamente, da Hamas a Fatah, il suo stesso partito: se non ci hanno ancora provato seriamente è perché non si sa chi possa sostituirlo. Idealmente ci vorrebbe un “Mandela palestinese”: un capo della resistenza capace di trascinare il suo popolo verso il traguardo della pace con il nemico, come fece Nelson Mandela in Sud Africa. Ma chi potrebbe essere questo leader? Ecco una scheda sui candidati al ruolo.

Il Mandela fallito - L’analisi dei possibili successori di Abu Mazen deve partire dal suo predecessore, perché il suo caso è un esempio da tenere ben presente: ovvero partire da Arafat, morto di malattia a 75 anni in un ospedale di Parigi, quasi due decenni or sono. Lo storico capo dell’Olp e poi presidente dell’Anp aveva le carte in regola per diventare il Mandela di Palestina: a lungo designato come terrorista da Israele, leader militare del suo popolo, come sottolineava indossando sotto la kefiah un’uniforme da generale (pur avendo un aspetto decisamente poco marziale), nel 1993 aveva stretto la mano con entusiasmo al premier israeliano Yitzhak Rabin sul prato della Casa Bianca e poi, dopo l’assassinio di Rabin per mano di un estremista israeliano, aveva continuato a negoziare con altri premier dello Stato ebraico, da Shimon Peres a Benjamin Netanyahu. Ma nel 2000 Arafat rifiuta la migliore offerta di pace che Israele abbia mai fatto ai palestinesi, quella di uno stato in Cisgiordania e a Gaza (collegate da un corridoio speciale), con Gerusalemme est come capitale, impuntandosi sulla richiesta del “diritto al ritorno” per i profughi palestinesi nello Stato ebraico, da cui erano fuggiti o erano stati cacciati nella guerra del 1948. “Accetti questa offerta ora o rimpiangerà per sempre di averla respinta” dice ad Arafat l’ambasciatore saudita a Washington all’ultimo giorno di colloqui. Arafat la respinge lo stesso. Il giorno seguente il leader palestinese va ad accomiatarsi da Bill Clinton, grande mediatore della trattativa, a cui resta poco più di un mese alla Casa Bianca prima di lasciarla a George W. Bush. “Lei è stato un grande uomo”, dice Arafat al presidente americano, come Clinton racconta nelle sue memorie. “No”, gli risponde con amarezza il presidente, “io sono un fallito e lei è la causa del mio fallimento”. Qualche anno dopo Dennis Ross, il diplomatico americano che aveva pazientemente tessuto per anni i fili del negoziato, dà questo giudizio di Arafat: “Un leader che non ha saputo compiere fino in fondo la transizione da capo guerrigliero a statista”. In altre parole, che non è riuscito a diventare un Mandela palestinese.

Il Mandela mancato - Per un certo periodo di tempo è sembrato che la parte di Mandela palestinese sarebbe stata interpretata da Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, l’attuale presidente dell’Anp. Che ha un difetto, rispetto ad Arafat: non è stato un capo militare, un guerrigliero con il kalashnikov in pugno. Laureato in legge al Cairo, con un dottorato conseguito più tardi all’università Patrick Lumumba di Mosca (culla di leader terzomondisti in era sovietica), Abu Mazen è sempre appartenuto all’ala politico-diplomatica del fronte palestinese. Ma specie all’inizio sembrava lo stesso un duro. Pur stretto collaboratore di Arafat, era uno dei dirigenti palestinesi più moderati, tra i primi a capire che si poteva arrivare a uno stato soltanto trattando con Israele. Negli ultimi anni di potere di Arafat, Abu Mazen lo critica aspramente, accusandolo di non fare abbastanza per raggiungere la pace. E, dopo la morte di Arafat, eletto suo successore, si batte per accelerare la trattativa, tenendo fede agli impegni di pace del ‘93, in particolare su un punto: la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi con l’antiterrorismo dello Stato ebraico nel dare la caccia ai terroristi palestinesi, visti da entrambi come un ostacolo al negoziato. Così facendo però Abu Mazen si fa la reputazione di complice di Israele, aggravata dal fatto che, nel frattempo, Israele continua ad aumentare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, anch’essi un ostacolo alla pace, e la trattativa non progredisce. A questo si aggiungono le accuse di corruzione, nei suoi confronti e in quelli dei suoi figli, spregiudicati affaristi. Tutto ciò contribuisce alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinese dei 2006, perché il gruppo fondamentalista, a differenza dell’Anp, vive tra i poveri di Gaza e fa opera di beneficenza e di assistenza a loro favore. In virtù del successo alle urne, Hamas prende il potere a Gaza, detronizzando l’Anp nel corso di una lotta armata che causa 800 morti e innumerevoli feriti: molte vittime vengono torturate e uccise dai fondamentalisti islamici per il sospetto di essere al servizio di Israele. Da allora, Abu Mazen rinvia continuamente nuove elezioni, con la scusa che la situazione di tensione con Israele non consente di svolgerle: il vero motivo è che teme di perderle in modo ancora più netto che nel 2006. Invecchiando, il presidente dell’Anp dà segni di senilità. Come se non bastasse, ripete con preoccupante frequenza affermazioni negazioniste sull’Olocausto, che sembrano qualcosa di più di una gaffe, visto che teorie del genere apparivano già nella sua tesi di dottorato all’università di Mosca. Screditato e in declino, nemmeno lui ce l’ha fatta a diventare un Mandela palestinese. “Si occuperà Allah di togliere il potere ad Abu Mazen”, dicono quelli di Hamas, alludendo al fatto che, quasi novantenne, non potrà mantenere l’incarico ancora a lungo.

Il Mandela potenziale - Nelson Mandela rimase in carcere per più di trent’anni. Marwan Barghouti è in una prigione israeliana da ventun anni e, con una condanna all’ergastolo per terrorismo, dovrebbe restarci per il resto della sua vita. Le analogie con il primo presidente del Sud Africa post-apartheid non finiscono qui. Mandela è stato un rivoluzionario, filocomunista e capo clandestino della lotta armata dei neri sudafricani, Barghouti è stato un leader della Prima e della Seconda Intifada palestinese, oltre che capo delle Brigate Martiri al-Aqsa, organizzazione accusata da Israele di innumerevoli attentati terroristici. Ma prima di questo ruolo, fresco di laurea in relazioni internazionali alla Birzeit, l’università palestinese di Cisgiordania, era un giovane membro del parlamento palestinese e fautore del processo di pace scaturito dagli accordi del ‘93 fra Arafat e il premier israeliano Rabin. Soltanto nel 2000, dopo il fallimento del summit di Camp David mediato da Clinton tra Arafat e il premier israeliano Barak, Barghouti perde fiducia nella trattativa con lo Stato ebraico e comincia a radicalizzarsi. Piace ai giovani dell’Intifada in Cisgiordania, piace anche ai dirigenti di Hamas: al punto che, durante i negoziati per uno scambio di prigionieri fra Hamas e Israele, dopo il rapimento di un soldato israeliano a Gaza nel 2006, proprio Hamas insiste affinché Barghouti venga inserito nella lista di più di mille detenuti palestinesi che Israele finirà per liberare in cambio del rilascio del suo soldato. Ma Israele rifiuta: non vuole lasciare uscire Barghouti. Perché ha le mani “macchiate di sangue”, è la risposta ufficiale: ma ce le hanno anche altri detenuti che vengono rilasciati. Oppure non lo rilascia perché, secondo un’altra teoria, Israele vede in Barghouti un leader potenziale in grado di unire Hamas e Anp, palestinesi di Gaza e palestinesi di Cisgiordania, rilanciando il negoziato e arrivando al sospirato obiettivo di uno stato palestinese. Finchè esiste il dualismo tra Hamas e Anp, i “falchi” israeliani hanno una scusa perfetta per non riprendere il negoziato di pace. Di certo c’è che Marwan, seppure dietro le sbarre, viene a lungo indicato come il possibile successore di Abu Mazen. A differenza del quale, non è macchiato né di sospetti di corruzione né dall’ombra di collaborazione con i servizi segreti israeliani nella caccia ai terroristi palestinesi: anzi, proprio lui ha accusato i servizi di sicurezza dell’Anp di gravi violazioni dei diritti umani nella repressione del terrore. Dal carcere non ha lanciato segnali di disponibilità a ricredersi sulla lotta armata, ma non è escluso che lo farebbe se venisse rilasciato in un nuovo scambio fra ostaggi e detenuti. In vari sondaggi, il 60 per cento dei palestinesi interpellati lo vorrebbero come presidente dell’Anp, preferendolo sia all’attuale leader Abu Mazen, sia ai leader di Hamas. In passato i media occidentali lo hanno soprannominato più volte “il Mandela palestinese”. A 64 anni e ancora in prigione, avrà mai l’occasione di dimostrare se è questo il suo destino?

Il Mandela intellettuale - C’è un altro Barghouti che è libero, ha un ruolo di primo piano tra i palestinesi e viene spesso intervistato dai media occidentali come un loro rappresentante, più articolato e credibile dell’anziano presidente Abu Mazen: si chiama Mustafà Barghouti, ha 69 anni, di professione è medico e attivista politico, come segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, il partito di cui è a capo. È stato ministro dell’Informazione nel governo dell’Anp, è un deputato del parlamento palestinese e un membro del Comitato centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il vecchio organismo che aveva al suo vertice Arafat. È un lontano cugino del Marwan Barghouti in carcere per terrorismo, ma la sua biografia è ben diversa. Più che nel nazionalismo palestinese, crede nel socialismo come mezzo di lotta all’oppressione in tutte le sue forme: frutto dei sette anni trascorsi a Mosca a studiare medicina al tempo dell’Urss. Ha lavorato come cardiologo e internista in un ospedale di Gerusalemme, è stato arrestato varie volte e brevemente detenuto, ma crede nella “resistenza non violenta a Israele” pur avendo sostenuto la seconda Intifada come inizio di una guerra d’indipendenza palestinese. Ha criticato Hamas per l’attacco del 7 ottobre scorso, ma ricordando quanti bambini, donne e civili palestinesi siano morti in tanti anni di raid israeliani. Dice che la soluzione del conflitto sta in uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, o in uno stato unitario binazionale ebraico-arabo. Per diventare un Mandela palestinese, però, gli manca la militanza in gruppi radicali: sembra troppo intellettuale per la parte.

Il Mandela “israeliano” - Il candidato favorito degli Stati Uniti e di Israele per la successione ad Abu Mazen è stato per molto tempo Mohammed Dahlan, ex-capo dei servizi di sicurezza palestinesi a Gaza. Sarebbe ancora il favorito, se non fosse che per molti arabi, più che un Mandela palestinese, Dahlan sarebbe un “Mandela israeliano”: lo considerano un agente dello Stato ebraico, come minimo il dirigente palestinese che ha avuto i migliori rapporti con Israele e con gli Usa. Nato e cresciuto nella striscia da una famiglia di profughi palestinesi fuggiti a Gaza dopo la guerra del 1948, Dahlan è stato arrestato e detenuto più volte da Israele negli anni Ottanta, quando era un giovane attivista di Fatah: ha passato abbastanza tempo in prigione da imparare l’ebraico, che parla perfettamente (anche questo non depone a suo favore tra i radicali palestinesi). Negli anni Novanta, quando parte il processo di pace, Arafat lo nomina capo delle Forze di Sicurezza Preventive a Gaza, una delle tante polizie create dal leader palestinese nel suo stile di governo all’insegna del “divide et impera”. A Gaza, Dahlan forma un corpo di sicurezza di 20 mila uomini, collabora (come richiesto dagli accordi di pace) con lo Shin Beth, l’antiterrorismo israeliano, e con la Cia, viene accusato di torturare sospetti terroristi palestinesi e di arricchimento personale: un vizio, quest’ultimo, che peraltro accomuna tutta la leadership dell’Anp. Personalmente, ricordo che indossava abiti firmati e aveva una predilezione per le Marlboro rosse: ne accendeva una dietro l’altra con un costoso accendino. Inizialmente appoggia Arafat, poi comincia a criticarlo. Il nuovo presidente palestinese Abu Mazen lo sostiene per un po’, quindi lo accusa di avere avvelenato Arafat, sulla cui morte rimane un alone di mistero. Dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006, Dahlan è protagonista di una lotta senza quartiere a Gaza contro il gruppo fondamentalista, che lo accusa di avere tentato di assassinare il proprio leader Ismail Haniyeh e demolisce per ritorsione la sua villa sul mare nella striscia. Dahlan si salva fuggendo all’estero. Sua moglie è saudita, lui ha acquisito cittadinanza serba e montenegrina, attualmente vive ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, dove ha stretti legami politici e d’affari con la famiglia reale al Nahyan, così come con il presidente egiziano al Sisi. Il suo pari grado e acerrimo rivale degli anni di Arafat, Jibril Rajoub, che capeggiava le forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania, lo definisce senza mezzi termini “un agente della Cia”. Tutti elementi che hanno contribuito a screditarlo fra i palestinesi. Ciononostante, quando si discute la lista dei potenziali successori di Abu Mazen, circola anche il nome di Dahlan: di sicuro sarebbe il candidato preferito di Washington, Gerusalemme, Riad, Cairo e Abu Dhabi.

Una Golda Meir araba - Non ci sono molte donne nella leadership palestinese. Una è stata eliminata in questi giorni a Gaza dalle forze israeliane: Jamila al-Shanti, prima donna eletta nell’ufficio politico dell’organizzazione fondamentalista palestinese e fondatrice del movimento femminile del gruppo. Ma pur essendo la vedova del co-fondatore di Hamas, Abdel Aziz al Rantissi (ucciso nel 2004, anche lui durante un raid aereo israeliano), Jamila non aveva la minima chance di prenderne il posto, tantomeno di diventare leader di tutti i palestinesi di Gaza e Cisgiordania. L’unica donna che ha veramente occupato un ruolo di primo piano nella galassia politica palestinese è piuttosto Hanan Ashrawi, portavoce della delegazione palestinese alla conferenza di pace di Madrid del 1991 (che fu il prologo degli accordi del ‘93), deputata del parlamento palestinese, per un certo periodo ministra dell’Istruzione, membro del Comitato Centrale dell’Olp, a lungo uno dei due o tre più stretti collaboratori di Arafat e, insieme a Saeb Erekat, scomparso nel 2020, uno dei principali negoziatori palestinesi nella trattativa con Israele. Laureata in letteratura all’università americana di Beirut, accademica recipiente di undici dottorati onorari da università di mezzo mondo, premiata con il Gandhi International Award for Peace e l’Olof Palme Prize per il suo impegno per i diritti umani, Ashrawi è da più di trent’anni una figura di primo piano della dirigenza palestinese e uno fra i più qualificati partner di Israele per la pace. Ma come il dottor Barghouti è una intellettuale, non una ex-combattente, non è mai stata in prigione e, in un ambiente fortemente maschilista, non è mai stata presa seriamente in considerazione come capo assoluto del movimento: tantomeno lo sarebbe oggi, a 77 anni. Peccato, perché è intelligente, appassionata ed esperta: non avrebbe potuto essere una Mandela palestinese, ma sarebbe potuta diventare la Golda Meir araba.

Una Somalia palestinese - Naturalmente il Mandela palestinese potrebbe non essere nessuno dei suddetti: anche altri aspirano alla parte. E se non saltasse mai fuori? È possibile che Israele elimini Hamas, se non del tutto, almeno a livello dei suoi capi, sia con l’invasione di Gaza, sia con esecuzioni mirate all’estero, come fece dopo la strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco: Ismail Haniyeh e Khaled Meshal, due dei suoi leader, saranno probabilmente nel mirino (Meshal è già sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento, nel 1997, da parte di due agenti israeliani ad Amman, in Giordania, dove viveva all’epoca). Quanto ad Abu Mazen, prima o poi scomparirà dalla scena, politicamente o fisicamente per ragioni di età, e si vedrà chi siederà sulla poltrona di presidente dell’Anp. Ma la carneficina compiuta da Hamas nell’incursione lanciata da Gaza il 7 ottobre e il declino di consensi e del governo palestinese in Cisgiordania disegnano anche un altro scenario: che i palestinesi rimangano senza una vera leadership. Del resto, da vent’anni sono già in due a disputarsela, Hamas e Anp. Il rischio è che adesso, davanti a una guerra che travolge tutto, le divisioni si moltiplichino, aggiungendo la Jihad islamica e altri gruppi radicali al quadro di coloro che si contendono il potere palestinese. Un timore dei servizi segreti americani e israeliani è che Cisgiordania e Gaza diventino così una “Somalia palestinese”, contesa da gruppuscoli del terrore e gang criminali, con effetti ancora più destabilizzanti della situazione odierna. Per questo Joe Biden ha detto a Netanyahu che bisogna pensare non soltanto all’attacco a Gaza ma anche a cosa fare dopo l’attacco. Con due consapevolezze: che Israele, se vuole la pace, prima o poi avrà bisogno di un partner con cui farla. E che non sarà facile trovare un Mandela palestinese.