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di Luigi Ferrajoli

Il Manifesto, 22 ottobre 2023

La qualificazione dell’aggressione di Hamas come un atto di guerra, anziché come un crimine efferato da combattere con gli strumenti del diritto, e la conseguente risposta israeliana della guerra hanno già prodotto i loro terribili effetti: l’imposizione a un milione di palestinesi di lasciare le loro case e di affollarsi al sud del loro minuscolo territorio, l’assedio di Gaza che sta lasciando senza cibo né acqua due milioni di persone, i bombardamenti sulle popolazioni civili che hanno già provocato più di 4.000 morti, di cui 1.400 bambini, e decine di migliaia di abitazioni distrutte.

È una risposta ottusa ancor prima che illecita. La guerra è soltanto tra Stati: “publicoum armorum contentio” la definì Alberico Gentili nel suo De iure belli libri tres, più di quattro secoli fa, e altrettanto hanno sempre fatto i teorici del diritto internazionale. Chiamare guerra le atrocità del 7 ottobre equivale ad elevare Hamas al livello di un pubblico esercito. Rispondere con i bombardamenti sui civili vuol dire abbassare lo Stato al livello dei terroristi e compattare con Hamas il popolo palestinese.

Israele avrebbe ancora un modo per rompere il legame tra Hamas e il popolo palestinese, per non confondere i due milioni di persone che vivono a Gaza con i criminali e recuperare l’identità di uno Stato democratico. Se considerasse l’aggressione del 7 ottobre non come un atto di guerra, ma come un crimine orrendo non condivisibile da milioni di palestinesi, potrebbe compiere un atto di straordinaria lungimiranza e intelligenza politica: l’apertura di un varco nel confine con Gaza, onde consentire l’ingresso in Israele a tutti i palestinesi chiaramente disarmati, primi tra tutti i bambini e le donne, ricoverare i malati e i feriti negli ospedali ed offrire agli sfollati, sia pure provvisoriamente, cibo, acqua, medicinali e assistenza.

Sarebbe, se fosse possibile illudersi, un atto magnanimo di umanità, tanto più nobile e inaspettato in quanto in risposta a un crimine feroce che tanto sgomento e dolore ha suscitato. Sarebbe la dimostrazione, oggi più che mai necessaria, dell’asimmetria radicale tra la disumanità incivile degli atti terroristici e la civile umanità delle istituzioni pubbliche. Soprattutto sarebbe un atto politico di enorme efficacia. Avrebbe l’effetto, più di qualunque discorso, di dissociare radicalmente il popolo palestinese da Hamas, e perfino di disarmare - politicamente se non militarmente - le organizzazioni criminali che ne rivendicano la rappresentanza. Favorirebbe la liberazione degli ostaggi. Varrebbe a contraddire la logica distruttiva del nemico. Salvando decine, forse centinaia di migliaia di palestinesi innocenti, varrebbe a dissociare il popolo israeliano dalle politiche disumane e irresponsabili portate avanti fino a ieri da Netanyahu. Sarebbe il segno di una svolta, di un primo passo verso la pace, altrimenti irraggiungibile, e comunque verso una soluzione politica del dramma. La spirale della vendetta, d’altro canto, può essere rotta soltanto da chi è più forte, e la sua rottura sarebbe la vera manifestazione di forza del governo israeliano, incomparabilmente maggiore di qualunque successo militare.

E invece, come tutte le risposte razionali, questa ipotesi è totalmente irrealistica, null’altro che un sogno. Del resto l’analfabetismo istituzionale è generalizzato: tutti - esponenti politici e commentatori - parlano dell’aggressione di Hamas come di un atto di guerra, e non come di un atto terroristico, ed anzi non comprendono neppure la necessità vitale di distinguere tra le due cose: esattamente come dopo l’11 settembre, quando alla strage criminale delle due Torri, subito chiamata guerra, si rispose con due guerre e centinaia di migliaia di morti tra le popolazioni civili, anziché con la mobilitazione delle polizie di tutto il mondo per identificare e punire i colpevoli.

Ovviamente il linguaggio della guerra, benché sia esattamente ciò che vuole il terrorismo, che come “guerra” si autorappresenta e legittima i suoi massacri, è assai più congeniale del linguaggio del diritto alla demagogia dei Bush e dei Netanyahu. Ma è altrettanto certo che il linguaggio e la pratica della guerra non potranno che avvelenare ulteriormente la questione palestinese, infiammare i conflitti identitari in forme sempre più esplosive, alimentare i fondamentalismi e rendere senza fine la spirale dell’odio e della vendetta, al termine della quale ci saranno solo rovine e la sostanziale sconfitta di entrambi i popoli.