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di Paolo Vittoria

Il Manifesto, 24 ottobre 2023

Intervista e Elsy Wakil, segretaria generale dell’Arab House for Adult Education di Beirut. Un’esperienza a rischio: “Non lasciateci soli”. La guerra tra Israele e Hamas si fa sempre più minacciosa al confine con il Libano. Elsy Wakil, segretaria generale dell’Arab House for Adult Education and Development (Ahaed), con sede a Beirut, è impegnata da anni sui temi della pace, dell’alfabetizzazione, dell’educazione popolare nel mondo arabo. La sua testimonianza racconta di un processo culturale che - nonostante la distruzione indiscriminata di civili, ospedali, chiese, moschee, le chiusure di scuole e università - non ai arrende, ma richiama a una rete di solidarietà internazionale.

“Quando c’è stato il primo attacco di Hamas contro gli israeliani - racconta - ho pensato che siamo tutti esseri umani, fratelli e sorelle e, come cristiana, non avrei mai potuto accettare lo spargimento di sangue. L’attacco all’ospedale di Gaza ha colpito civili, bambini e donne e non abbiamo sentito una condanna né da parte di Hamas né da parte di Israele, ma solo uno scarico di responsabilità da entrambe le parti. Naturalmente, senza i 65 anni di occupazione della Palestina non staremo vivendo questo dramma”.

Il dramma della guerra colpisce anche scuole e università…

Il Libano è al confine con la Siria e Israele, o meglio con la Palestina occupata, e ovviamente stiamo soffrendo questa situazione. Dobbiamo tristemente prendere atto del bombardamento di molte scuole a Gaza e persino di una chiesa greco-ortodossa e una moschea. Temo che sarà una guerra lunga che colpirà anche l’istruzione. Nel sud del Libano scuole e università sono chiuse da qualche giorno e probabilmente lo rimarranno a lungo: quotidianamente abbiamo aggiornamenti dal ministero dell’Istruzione. Non abbiamo invece informazioni sulle scuole a Gaza, sappiamo che nel resto della Palestina sono chiuse e si lavora da remoto come nel sud del Libano. Molte compagnie aeree non voleranno più a Beirut a causa della guerra e del timore che l’aeroporto possa essere bombardato dagli israeliani.

Hezbollah è un partito molto forte in Libano: cosa accadrebbe se entrasse attivamente in guerra?

Credo che ci sarebbe un’escalation e che il Libano potrebbe scomparire perché siamo un Paese molto piccolo e non abbiamo più la forza di resistere, avendo già subito altre guerre: l’ultima da parte di Israele risale al 2006; sono stati 14 giorni di bombe e Israele si è fermata solo dopo aver distrutto mezza Beirut, ponti, infrastrutture, per la cui ricostruzione ci vorranno ancora anni e anni. Quando Biden ha incontrato il primo ministro israeliano Netanyahu, ha giustamente condannato l’attacco di Hamas, ma non ha detto nulla sui crimini di Israele. E nessuno ha detto niente quando Israele nel 2006 bombardava tranquillamente il Libano.

Quanto influisce la questione religiosa nel conflitto?

A mio avviso la religione c’entra relativamente: ci sono differenze tra la percezione cristiana, musulmana o ebraica della guerra, ma sul fronte russo-ucraino si fanno la guerra pur avendo la stessa religione, visto che sono quasi tutti cristiani ortodossi. L’unica causa di questa guerra è l’occupazione della Palestina e l’emarginazione dei palestinesi. Qualcuno ritiene che Usa e Israele abbiano lasciato che Hamas commettesse liberamente i suoi crimini per poi reagire e non è uno scenario da escludere. Gli Stati uniti non hanno mai sostenuto la pace. Cosa hanno fatto in Iraq? Cosa hanno fatto in Afghanistan? Cosa hanno fatto in Siria? Appare come una strategia in cui ci sono molti fronti di guerra. Anche Yemen e Iraq, non solo Hamas o Hezbollah. Una guerra su base regionale, ma totale, con vari scenari. Credo che la strategia sia occupare più terre a Gaza e trasformarla in zona militare. Probabilmente entreranno a Gaza e cambieranno i confini con Israele, utilizzando Gaza come area e base militare, creando danni irreversibili a tutti i livelli, non solo socioeconomici e sanitari, ma anche mentali e educativi. La gente a Gaza ora non ha cibo, né acqua, né scuole.

Da anni nella Arab House lavorate per la pace, per il dialogo tra popoli arabi: come state affrontando questa crisi?

Abbiamo lavorato per più di quindici anni per la pace, per vederne ora la distruzione. Abbiamo avuto un incontro dall’8 al 15 ottobre 2023 all’Arab Academy. Molti partecipanti provenivano da Gaza e sono passati attraverso il valico di Rafah, via Egitto. Uno di loro, un caro amico e collega, quando è arrivato al Cairo ha chiamato la sua famiglia e ha saputo che suo fratello era stato assassinato a Gaza. Ovviamente, preso da rabbia e disperazione, voleva tornare a Gaza, ma suo padre ha insistito affinché continuasse il viaggio e partecipasse all’incontro, perché non voleva perdere un altro figlio. Abbiamo deciso di procedere come da programma. Tutti i partecipanti sono arrivati, solo uno dalla Palestina non è potuto venire perché i confini tra Giordania e Palestina sono chiusi. Abbiamo vissuto una settimana di paura, ma siamo riusciti a finalizzare il lavoro e tutti i partecipanti sono tornati sani e salvi. Ancora due partecipanti stanno aspettando che il valico di Rafah venga aperto per viaggiare dal Cairo a Gaza.

Cosa si può fare per Gaza in questo momento?

Stiamo facendo molte attività da remoto, abbiamo molti gruppi di discussione su WhatsApp, sulla Pace, sui Diritti Umani, sui media e sulle normative. Stiamo facendo incontri - anche se a distanza - con specialisti sui traumi infantili dovuti alla guerra e ai bombardamenti. Spero che questa guerra finisca presto e non colpisca tutti i paesi arabi, in particolare il Libano. È molto importante che ci sia una rete di solidarietà e che non ci lasciate soli.