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di Giovanni De Luna

La Stampa, 29 ottobre 2023

Le foto e i video dei massacri di Hamas e quelle di Gaza distrutta invadono i nostri salotti televisivi: “una competizione vittimaria” per conquistare il favore dell’opinione pubblica, sempre più distratta. Scorrono le immagini dell’orrore. Imperversano sui social, arrivano sui nostri telefonini, ci sommergono dai televisori. È come avere la guerra in casa. Le hanno spedite prima dall’Ucraina, ora da Israele. E a mandarcele sono entrambi i contendenti. È la “competizione vittimaria”: le guerre si vincono sul campo battendo militarmente il nemico, ma si vincono anche su un altro fronte, quello di una opinione pubblica pronta a indignarsi, emozionarsi e schierarsi a favore di chi sembra (o è) “più vittima” dell’altro. La guerra del Vietnam ce lo ha insegnato: un esercito forte e agguerrito come quello americano fu sconfitto da un avversario militarmente più debole ma reso invincibile dal favore dell’opinione pubblica mondiale che, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, si schierò senza esitazioni dalla parte dei piccoli vietcong, dei loro pigiami neri, della loro capacità di battersi contro il napalm e le armi sofisticate di una superpotenza.

Da Israele e da Gaza ne sono arrivate un diluvio: prima quelle della strage del 7 ottobre, postate dagli stessi miliziani di Hamas, ebbri di sangue, ubriachi di vittoria; poi quelle da Gaza, dei bombardamenti israeliani e dei civili inermi. Ma prima ancora avevamo visto quelle delle fosse comuni di Bucha, in Ucraina, dei civili ammazzati dai russi in mezzo alle strade e tante altre ancora. Un diluvio che negli ultimi tempi ha riguardato soprattutto i bambini: sgozzati o presi in ostaggio da Hamas, sepolti dalle macerie a Gaza. Non è una novità. Il piccolo ebreo con le mani alzate, ripreso in un convoglio di deportati, è diventato uno dei simboli più toccanti della tragedia della Shoah. Senza dimenticare i bimbi scheletrici delle grandi carestie, tante altre piccole vittime messe in mostra e fotografate fino al corpicino esanime, su una spiaggia italiana, che ci ha fatto toccare con mano il dramma della fuga verso le nostre coste di migliaia di esseri umani abbandonati nelle mani di trafficanti senza scrupoli.

Anche le strategie comunicative sono sempre le stesse. Hamas ha fatto circolare i video dell’orrore per glorificare se stessa e i suoi “martiri” e per “terrorizzare” gli israeliani; Israele li ha messi in rete per documentare la crudeltà di nemici che considera “bestie in sembianze umane”. Sono le regole della competizione vittimaria e vengono seguite da entrambe le parti, con una perfetta, reciproca simmetria: a un’azione dell’una corrisponde una reazione uguale e contraria dell’altra.

Sul campo oggi sono in corso guerre simmetriche e guerre asimmetriche. Quella tra Ucraina e Russia è una classica guerra simmetrica, con due eserciti nazionali, due Stati, due bandiere, due alleanze; si tratta di avversari che si conoscono bene e che sanno che alla fine una pace ci sarà, ci dovrà essere. Non si sa quando, ma ci sarà. Quella tra Israele e Hamas è invece profondamente asimmetrica. Da un lato una nazione, uno Stato, un esercito che è tra i meglio attrezzati del mondo; dall’altro uno schieramento privo di una realtà statuale e che ha spesso usato come arma direttamente i corpi dei suoi militanti, (in una riedizione postnovecentesca dei kamikaze giapponesi) e che ora si è servito dei deltaplani, delle jeep, dei fuoristrada, “attrezzi” che appartengono al loisir, al turismo, intrecciando arcaismo e modernità, culti religiosi e spinte tecnologiche e cogliendo così di sorpresa anche i servizi segreti israeliani. Una guerra asimmetrica della quale non si intravede la fine perché la pace sembra impossibile: gli avversari si delegittimano a vicenda e a ogni azione militare corrisponde l’incremento esponenziale di un odio smisurato.

Pure, in questo scenario che si ripete nei vari conflitti che insanguinano oggi il nostro pianeta, c’è anche un altro elemento sul quale aveva richiamato l’attenzione, già un po’ di anni fa, Susan Sontag, ed è il rischio dell’assuefazione di fronte agli eccessi di una rappresentazione che ci sbatte in faccia, senza mediazioni, “il dolore degli altri”.

In una di queste sere, su una rete televisiva privata, il giornalista in studio si è soffermato a lungo sui fotogrammi raccapriccianti che stava per trasmettere e sui mille dubbi che aveva circa quella messa in onda: erano del 7 ottobre, tra i più cruenti di quelli immortalati dai telefonini di Hamas. Quando il servizio è partito, però, all’orrore si è sovrapposto lo sgomento: le immagini erano quelle dello stacco pubblicitario che il giornalista aveva omesso di annunciare. Ne è venuto fuori così un groviglio inestricabile tra il sangue delle vittime e i sorrisi compiaciuti, l’allegria ostentata di uomini e donne che ci invitavano ad acquistare, a consumare. Una scena emblematica; senza soluzione di continuità nei nostri televisori arriva di tutto, un minestrone che svuota le emozioni, proponendoci uno sdegno “usa e getta”, schiacciato su un consumo vorace e veloce. Giustapposte una all’altra, le figure straziate dei bambini rincorrono gli exploit di Fabrizio Corona, la commozione si intreccia con la curiosità, la notizia con il gossip: chiusi nei tinelli delle nostre case, sprofondati sui divani dei nostri salotti, ci sentiamo rassicurati dalla percezione dei nostri interni domestici come fortezze inespugnabili. E dimentichiamo tutto, in fretta.