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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 8 dicembre 2023

Il 7 ottobre centinaia di israeliane sono state violentate, rapite o uccise. Il corpo delle donne ancora campo di battaglia. Sono trascorsi due mesi e un giorno dal 7 ottobre. Quella mattina decine, probabilmente centinaia di donne israeliane sono state aggredite e violentate, uccise o rapite dai commando fuoriusciti da Gaza. Presto sarà possibile sapere quante. Corpi e storie, le commissioni di inchiesta cercheranno di ricostruire che cosa hanno subito. Anche l’Onu adesso promette un’indagine internazionale. Ma da settimane noi sappiamo già, benissimo, che nelle lunghe ore della mattanza è stato compiuto “un crimine contro l’umanità” così come viene descritto dalla Convenzione di Ginevra “se perpetrato sistematicamente”. È successo in tante guerre, forse in tutte, dal Ratto delle Sabine fino alla Bosnia, al Ruanda e al Darfur - anche se è vero che in questo lungo conflitto tra israeliani e palestinesi, dal 1948, non era mai successo: siamo dunque di fronte a qualcosa di inedito e terribile. Lo stupro di massa delle donne del “nemico”, il più brutale dei nostri giorni, da sempre il più letale degli “effetti collaterali” premeditati.

Vorremmo qui, per una volta, parlare soltanto di loro. Delle ragazze ebree che stavano partecipando al Nova Festival, un rave pacifista nel deserto. Come delle donne, magari anziane e da una vita attiviste per il dialogo, abitanti dei kibbutz devastati. Delle bambine, atterrite e tenute in ostaggio, che sono tornate libere grazie alla trattativa, ma una volta “fuori” hanno continuato a sussurrare, a bisbigliare, quasi avessero perso per sempre la capacità di far sentire la propria voce in mezzo agli altri.

Perché abbiamo esitato a prendere coscienza di queste violenze? Perché istituzioni internazionali e organizzazioni non governative - a braccetto con una parte consistente dell’opinione pubblica - hanno minimizzato, rimosso, a tratti negato? Physicians for Human Rights - un’organizzazione “moralmente impegnata a proteggere la salute di tutte le persone dal fiume al mare”, medici che curano palestinesi e israeliani, che stanno chiedendo un cessate il fuoco immediato perché “la nostra parte è quella delle vittime” - hanno messo insieme le prove delle violenze di genere commesse in quel sabato d’orrore.

Ci sono i video. Quelli degli uomini di Hamas, pubblicati e ripuliti più o meno in fretta; quelli delle bodycam degli assalitori rimasti uccisi, recuperate e analizzate in Israele. Si sentono gli scambi tra terroristi che si accordano su chi stuprare e come. Ci sono le testimonianze di chi c’era ed è sopravvissuta, ha potuto vedere mentre era nascosta, ha sentito le voci e poi il silenzio. Sappiamo che cosa è successo, in parte. Sono stati recuperati corpi senza vita nudi, coperti di sperma, con le gambe e il bacino spezzati, le vagine lacerate e segni di mutilazioni genitali. Sappiamo di una ragazza, presa piegata e violentata in gruppo da miliziani in mimetica, finita con un colpo alla testa sparato da quello al quale era stato riservato l’ultimo turno. I seni asportati e usati per giocare tra complici. Sappiamo perché lo abbiamo visto anche noi direttamente - nelle prime immagini del 7 ottobre - di quelle ragazze portate verso Gaza, in tuta o in pigiama, con il sangue che colava tra le gambe. Abbiamo visto e memorizzato il corpo di Shani Louk, catturata al rave party, esibita in corteo, svestita e riversa sul pick-up, con le anche disarticolate, circondata da uomini urlanti, oltraggiata anche da chi - non potendo fare di più - ha voluto partecipare sputando sul cadavere.

Il corpo delle donne - ancora - come campo di battaglia. Così strategico in diretta, ma spendibile nel tempo. Quasi sempre espunto dal conto ufficiale delle vittime di guerra. Sottovalutato, svalutato, fino a essere cancellato dai file che vengono scambiati sui tavoli della tregua. Dove di solito siedono soltanto uomini, in divisa o in grisaglia.