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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 26 febbraio 2024

La popolazione di Gaza muore per mancanza di cibo, gli appelli sono inascoltati. E l’Unrwa, accusata da Israele di collusioni con Hamas, ha sospeso le forniture. A Gaza si muore per mancanza di cibo. A Gaza, secondo le stime delle Nazioni Unite, una persona su quattro muore di fame, in alcune aree nove famiglie su dieci trascorrono un giorno e una notte senza cibo. Gli appelli per fare fronte a questa catastrofe umanitaria non sono di oggi né di ieri. Vanno avanti da mesi: a dicembre, un rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification prevedeva che entro la fine di questo mese l’intera popolazione della Striscia avrebbe dovuto affrontare livelli di crisi di insicurezza alimentare acuta, con almeno una famiglia su quattro alle prese con condizioni vicine alla carestia. È di fronte a questi numeri, che l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile degli affari palestinesi, ha dichiarato di dover sospendere gli aiuti a nord di Gaza per il “crollo dell’ordine”, formula per indicare che la disperazione della gente che ha bisogno di cibo, sta rendendo insicuri i viaggi verso il nord della Striscia. Qui i fatti della cronaca recente: un mese fa le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme sulle “sacche di carestia a Gaza” con una concentrazione particolarmente acuta a nord, e in due mesi le cose sono andate peggiorando, come la disperazione di chi non mangia, non sa come sfamare i propri figli e per questo assalta i (pochi) camion di passaggio con gli aiuti.

Tamara Alrifai, direttrice delle relazioni esterne dell’Unrwa ha detto che “il comportamento disperato delle persone affamate ed esauste sta impedendo il passaggio sicuro e regolare dei nostri camion. Non sto incolpando le persone o descrivendo queste cose come atti criminali, sto dicendo che il fatto che abbiano fermato i nostri camion non rende più possibile condurre operazioni umanitarie adeguate”.

L’assedio alla Striscia di Gaza - Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva ordinato un assedio completo della Striscia: “Non ci sarà elettricità, né cibo né carburante. Tutto è chiuso” aveva detto. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir dieci giorni dopo aveva sostenuto che nessuno “dovrebbe entrare a Gaza fino a che gli ostaggi israeliani saranno nelle mani di Hamas”. Il 21 ottobre Israele ha iniziato a concedere l’accesso di pochi aiuti, ma da allora tutte le organizzazioni umanitarie e alcuni degli esperti legali che osservano e studiano la situazione nella Striscia di Gaza, denunciano non solo che la situazione è ormai - come è sotto gli occhi del mondo - disperata, ma che la fame, nella guerra a Gaza, viene utilizzata come arma. Impedire l’accesso dei beni di prima necessità, in guerra, è una violazione del diritto internazionale che i funzionari israeliani rispediscono al mittente.

Intervistato a dicembre dal Time, il colonnello Elad Goren, capo del dipartimento civile del Cogat, l’agenzia israeliana che facilita gli aiuti a Gaza, ha detto che la “narrativa del blocco è completamente falsa”. Secondo Goren, Israele fornisce 28 milioni di litri di acqua al giorno, ha permesso l’accesso di 126 mila tonnellate di aiuti e aumentato il numero di camion che possono entrare nella Striscia. “Secondo la nostra valutazione, basata sulle conversazioni con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie, c’è una quantità sufficiente di cibo a Gaza e continuiamo a spingere le agenzie umanitarie a raccogliere più camion ai confini e a distribuirli”. La realtà, le statistiche, i numeri e le testimonianze, però, raccontano un’altra storia. Prima del 7 ottobre, ogni giorno le autorità israeliane autorizzavano in media l’ingresso nel territorio di 500 camion di aiuti umanitari, oggi nel mezzo della feroce campagna di bombardamenti, riescono a entrare a volte solo poche dozzine di camion.

Il circolo vizioso della fame - Già alla fine di dicembre, per l’Onu, solo l’8% delle persone bisognose riceveva aiuti alimentari. L’Unrwa stessa non ha ottenuto il permesso dalle autorità israeliane di fornire aiuti nel nord di Gaza per più di un mese, prima della decisione di ieri di interrompere, almeno temporaneamente le distribuzioni. È il circolo vizioso della fame. La sicurezza dei convogli umanitari è a rischio, perciò inviare aiuti è progressivamente più difficile, quando non impossibile, col risultato che la fame non fa che crescere e con essa la disperazione. Oggi, i convogli umanitari che entrano a Gaza dalla città più meridionale di Rafah attraversano aree dove sta cercando rifugio un milione e mezzo di persone, costrette a sud dalle forze israeliane. Dormono in dieci, venti in una tenda. Non hanno niente, quasi niente, di cui sfamarsi. A nord, dove resterebbero 300 mila persone, secondo un recente rapporto di Unicef e Wfp il 15,6% della popolazione, un bambino su sei sotto i 2 anni, è gravemente malnutrito. All’inizio dell’offensiva di terra in ottobre, l’esercito israeliano aveva ordinato a un milione di civili palestinesi di evacuare tutte le aree a nord di Wadi Gaza e di cercare rifugio nel sud, l’area di evacuazione comprendeva Gaza City, la più densamente popolata prima della guerra. La maggior parte dei civili si è spostata a sud, ma circa 300 mila persone hanno o scelto di restare o, più probabilmente, non sono riuscite a fuggire mentre l’esercito israeliano circondava l’area. Oggi, la consegna degli aiuti a nord è diventata quasi impossibile. All’inizio di questa settimana, il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha dichiarato di essere stato costretto a sospendere le consegne di aiuti nel nord di Gaza a causa del “caos totale e della violenza dovuti al crollo dell’ordine civile”. Domenica scorsa, mentre si avvicinava al checkpoint di Wadi Gaza nel viaggio verso nord, un convoglio è stato “circondato da una folla di persone affamate” si legge nel comunicato “con molteplici tentativi da parte di persone di salire a bordo” e poi entrando a Gaza City ha dovuto affrontare colpi di arma da fuoco, “alta tensione e rabbia esplosiva”.

L’attacco ai convogli umanitari - All’inizio di febbraio un convoglio dell’Unrwa è stato attaccato dalle forze navali israeliane mentre aspettava di spostarsi nel nord di Gaza. Dopo l’incidente, l’organizzazione ha dichiarato che solo quattro dei suoi convogli, per un totale di 35 camion, erano riusciti a raggiungere il nord della Striscia in un mese, equivale a dire cibo per 130 mila persone a malapena. In questo contesto, il 26 gennaio scorso, la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha emesso una sentenza provvisoria giuridicamente vincolante secondo la quale Israele avrebbe dovuto “adottare tutte le misure in suo potere per impedire che vengano commessi tutti gli atti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’Articolo II della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, nonché misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari per affrontare le condizioni di vita avverse affrontate dai palestinesi in la Striscia di Gaza”.

In quelle settimane, però, è accaduto anche altro. Il 31 gennaio 2024, il Primo Ministro Netanyahu ha affermato che l’Unrwa è “al servizio di Hamas”, Israele ha dichiarato che 12 funzionari dell’Unrwa nella Striscia, avrebbero partecipato direttamente al massacro del 7 ottobre assieme ad Hamas, affermando che il 10% di tutti i lavoratori dell’Unrwa sarebbe affiliato al gruppo. Philippe Lazzarini, il commissario generale dell’Unrwa, in una lunga intervista al quotidiano israeliano Haaretz, ha detto: “Non sappiamo da dove provengano queste informazioni, non sappiamo se si tratti di una stima. Non sappiamo se si tratti solo di speculazioni”. Ciononostante, immediatamente dopo la diffusione delle accuse, 9 membri del personale sono stati licenziati, e 16 Paesi donatori hanno annunciato la sospensione totale o la sospensione temporanea dei contributi all’Unrwa - agenzia che sostiene milioni di palestinesi - per un totale di 450 milioni di dollari.

Un rapporto di quattro pagine del National Intelligence Council, distribuito tra i funzionari del governo americano e citato dal Wall Street Journal, ha messo in dubbio le affermazioni israeliane sui legami tra l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (Unrwa) e Hamas. Il report sostiene che alcune delle accuse siano credibili, sebbene non possano essere verificate in modo indipendente, e mette in dubbio anche le affermazioni di legami più ampi con gruppi militanti. Il quotidiano statunitense, riportando il report, dice che “sebbene l’Unrwa si coordini con Hamas per fornire aiuti e operare nella regione, mancano prove che suggeriscano che abbia collaborato con il gruppo”, sottolineando, come il capo dell’Unrwa, “che Israele non abbia condiviso con gli Stati Uniti le informazioni che stanno dietro le sue valutazioni”.

Le accuse all’Unrwa - A coinvolgere l’Unrwa non sono solo le accuse di collusione con Hamas e le radicali diminuzioni dei fondi dei donatori internazionali, ma anche una serie di interventi in Israele, che hanno spinto Lazzarini a dichiarare che “dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, c’è stato uno sforzo concertato da parte di alcuni funzionari israeliani per confondere ingannevolmente l’Unrwa con Hamas, interrompere le operazioni dell’Agenzia e chiedere lo smantellamento dell’Agenzia”.

È così da ottobre: centinaia di membri del personale locale non possono entrare a Gerusalemme da allora. La guerra a Gaza ha ucciso 152 dipendenti palestinesi dell’Agenzia, il numero più alto di vittime delle Nazioni Unite da quando l’organismo è stato fondato nel 1945, alcuni sono stati uccisi negli attacchi contro gli ospedali e le scuole dell’Unrwa, che ospitano gli sfollati. Secondo i dati dell’Agenzia, dall’inizio della guerra Israele ha colpito le sue strutture 263 volte, provocando la morte di 360 civili.

In Israele, tutte le decisioni che riguardano l’Agenzia sono andate nella direzione del suo smantellamento: l’Autorità fondiaria israeliana ha chiesto all’Unrwa di sgomberare il suo Centro di formazione professionale a Gerusalemme est (assegnato all’Agenzia dalla Giordania nel 1952) e di pagare una “tassa di utilizzo” di oltre 4, 5 milioni di dollari, il quartier generale dell’Unrwa a Gerusalemme è stato sfrattato, i visti per la maggior parte del personale internazionale, compreso quello a Gaza, sono limitati a uno o due mesi, le autorità doganali hanno sospeso la spedizione delle merci all’agenzia e una banca israeliana ha bloccato un conto dell’Unrwa.

A quattro mesi dall’inizio della guerra, Netanyahu ha svelato il suo piano per il “giorno dopo”, il piano del dopoguerra di Gaza. Gli obiettivi a breve termine restano invariati: distruggere le capacità militari di Hamas e le sue infrastrutture e garantire il rilascio degli ostaggi. Nel medio periodo Israele manterrebbe le libertà di operazioni militari a Gaza, creerebbe una zona cuscinetto e si impegnerebbe a contrastare il contrabbando al confine tra la Striscia e l’Egitto, in collaborazione con gli Stati Uniti.

In più, ha aggiunto, prevede la chiusura permanente dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, l’Unrwa, da sostituire con un organismo internazionale. “La nostra operazione umanitaria, da cui dipendono 2 milioni di persone a Gaza, sta crollando - ha detto Lazzarini -. I palestinesi di Gaza non avevano bisogno di questa ulteriore punizione collettiva. Questo macchia tutti noi”. Senza nuovi finanziamenti le operazioni saranno gravemente compromesse a partire da Marzo. Manca una settimana. Intanto a Gaza una persona su quattro muore di fame.