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di Michele Giorgio

Il Manifesto, 11 maggio 2023

Intervista al fratello, Tony Abu Akleh: “Il clamore internazionale non ha impedito l’uccisione di tanti altri palestinesi. Nessuna indagine seria, vera, è stata aperta per tutte queste uccisioni”. Shireen Abu Akleh, palestinese di Gerusalemme con passaporto statunitense, era il volto e la voce di Al Jazeera nella Cisgiordania occupata. Instancabile, presente ovunque, aveva raccontato per oltre vent’anni, dalla seconda Intifada in poi, la vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione militare: chiusure di città e villaggi, posti di blocco, ostacoli economici, proteste, manifestazioni, incursioni militari israeliane e di tanti, troppi, morti e feriti.

L’11 maggio 2022 era giunta a Jenin alle prime luci del giorno con i suoi colleghi per seguire un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi della città. Un’altra giornata di lavoro intenso ma non più di tante altre. Invece le immagini riprese con telefoni e telecamere la mostrano mentre, all’improvviso, crolla uccisa all’istante da un proiettile. Israele inizialmente ha negato ogni responsabilità puntando l’indice contro i combattenti palestinesi. Poi, sotto l’incalzare delle inchieste svolte da più parti, ha ammesso che lo sparo è con ogni probabilità partito da un suo soldato ma per errore. E ha chiuso l’indagine della procura militare senza prendere provvedimenti, incurante delle proteste internazionali e della famiglia Abu Akleh che sostiene la tesi di un colpo sparato intenzionalmente dai militari. A un anno di distanza abbiamo intervistato a Gerusalemme Tony Abu Akleh, fratello di Shireen.

Cosa ricorda di quel giorno?

Mi trovavo in Somalia per lavoro, sono un dipendente delle Nazioni unite. Mi sono svegliato presto quel giorno, era un mercoledì. Ho preparato il tè come ogni mattina quando, più o meno alle 6.30, mi è apparsa una notifica sullo schermo del cellulare. Poche parole: la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata ferita da colpi d’arma da fuoco a Jenin. Sono rimasto senza fiato per diversi secondi. Poi ho cominciato nervosamente a chiamare Shireen sul suo telefono. Squillava a vuoto. Allora ho accesso la tv sperando di trovare qualche notizia, niente. Ho telefonato a mia figlia Lina, anche lei non sapeva nulla. Ho creduto di impazzire, andavo avanti e indietro nella stanza. Poi, qualche minuto dopo le 7 in tv hanno dato la notizia su Al Jazeera: Shireen Abu Akleh è morta, uccisa da colpi sparati dagli israeliani. Devastato dal dolore ho raggiunto l’aeroporto per rientrare a casa con il primo volo. Quando sono arrivato c’erano tante persone. Parlavano dei funerali, delle cose da fare, ognuno dava un resoconto dell’accaduto. Io mi stringevo ai miei famigliari distrutti dal dolore. Il giorno dopo si sono svolti i funerali di Stato organizzati dal presidente dell’Anp Abu Mazen. Il venerdì abbiamo sepolto Shireen al termine di una giornata di tensione segnata anche dalle cariche della polizia (israeliana) al corteo funebre. Cose che non si possono dimenticare.

Avete sempre chiesto giustizia per Shireen, incassando una delusione dopo l’altra...

Quella che fa più male è vedere che l’omicidio di Shireen e il successivo clamore internazionale non hanno impedito l’uccisione, giorno dopo giorno, di tanti altri palestinesi. Israele gode di un’eccezionale impunità. Nessuna indagine seria è stata aperta per tutte queste uccisioni, non solo quella di Shireen. Come famiglia abbiamo fatto il possibile. Siamo palestinesi ma anche cittadini statunitensi e negli Usa abbiamo provato con tutte le forze di ottenere giustizia per mia sorella. Ci siamo rivolti a parlamentari, avvocati, personalità politiche e amici per spingere le autorità americane a indagare su quanto accaduto. Non è stato facile ma alla fine siamo riusciti a ottenere l’apertura di un fascicolo da parte dell’Fbi. Vogliamo credere che quell’indagine andrà avanti e non si concluderà come le altre, a dir poco deludenti svolte dal coordinatore Usa per la sicurezza (in Israele) e dal Dipartimento di Stato. L’11 maggio di un anno fa è stato commesso un grave omicidio, un crimine che va indagato come ogni altro crimine senza fare sconti a nessuno.

Ci sono state inchieste di più parti, inclusi importanti mezzi d’informazione, come Cnn e Al Jazeera. Tutte attribuiscono ai militari israeliani la responsabilità degli spari che hanno ucciso Shireen. Israele sostiene la tesi dell’errore. Voi insistete sull’intenzionalità...

Proprio l’atteggiamento avuto da Israele, la sua volontà di non collaborare, ci dicono che la strada è quella. Speravamo che l’indagine del Dipartimento di Stato potesse fare piena luce. Gli Usa hanno anche ricevuto dall’Anp il proiettile che ha ucciso Shireen. Abbiamo appreso che gli esperti americani non l’hanno esaminato ma si sono affidati, per motivi ignoti, alla scientifica della polizia canadese. Un quadro caotico che alla fine ha prodotto l’adesione del Dipartimento di Stato alla versione israeliana dell’uccisione non intenzionale.

Ne avete parlato con il segretario di Stato Blinken?

Certo, gli abbiamo espresso tutti i nostri dubbi. Si è limitato ad assicurarci che avrebbe cercato di trovare risposte ai nostri interrogativi. Ma non abbiamo più avuto notizie.

Le autorità israeliane vi hanno cercato?

Mai. Anzi, solo una volta, il 12 maggio (dello scorso anno) per chiederci informazioni sui funerali di Shireen a Gerusalemme. Poi più nulla.

Un anno di dolore, cosa vi ha aiutato in questi mesi?

La solidarietà e la vicinanza di tutti i palestinesi. La stima e la riconoscenza che tutti hanno avuto per Shireen e il suo lavoro. Ci ha ripagato delle delusioni subite e portato sollievo dopo una perdita immensa.