sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giuseppe Sarcina

Corriere della Sera, 3 dicembre 2023

Per riportare la pace a Gaza è necessaria un’intesa tra Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. Il mondo arabo-musulmano sta già tentando una mediazione. Prima tappa: Pechino, poi Mosca, Londra e Parigi. A Gaza è ripresa la guerra e a Doha, in Qatar, si sono bruscamente interrotte le trattative per la liberazione degli altri 180 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. La tregua di sette giorni aveva ridato un certo slancio a movimenti sotto traccia della diplomazia. Ora c’è il rischio di dover ricominciare daccapo.

Nell’Amministrazione Biden cresce, in modo palpabile, l’irritazione nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu. E non si fa nulla per nasconderlo, anzi, la nuova strategia politico-mediatica degli americani è di portare alla luce i contrasti. Anche con una nettezza che non si era mai vista dall’inizio della guerra.

Ieri la vice presidente Kamala Harris ha detto ai giornalisti che “il presidente Joe Biden è stato molto chiaro con il governo israeliano: bisogna cessare di colpire i palestinesi innocenti”. La numero due della Casa Bianca, però, si è trovata in imbarazzo quando le è stato fatto notare che i bombardamenti israeliani hanno già fatto almeno 200 vittime tra i civili.

A Washington i diplomatici pensano, o forse sarebbe meglio dire sperano, che la nuova “stretta” di Biden su Netanyahu possa mitigare il costo in vite umane della guerra. Il presidente americano non vuole condividere con il premier israeliano la responsabilità di altre stragi. Nelle scorse settimane gli Usa sono rimasti isolati all’Onu, come non accadeva dai tempi dell’Iraq, pur di contrastare le mozioni che chiedevano il cessate il fuoco immediato agli israeliani. La Casa Bianca si è dovuta sorbire una grottesca lezione sul rispetto del diritto internazionale persino da Vladimir Putin.

A questo Biden vuole un cambio di passo. Al momento non sembra ipotizzabile una rottura traumatica con Netanyahu. O almeno: non finché il conflitto è in corso. Per il leader dello Studio Ovale, però, è necessario stabilire il prima possibile una nuova tregua e riprendere i negoziati con Hamas. La prima preoccupazione resta la liberazione dei prigionieri intrappolati a Gaza. Sempre ieri Kamala Harris ha parlato a lungo con l’Emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Al Thani, amico degli Stati Uniti, ma anche finanziatore di Hamas e, di conseguenza, protagonista “naturale” della mediazione.

In parallelo gli americani rilanceranno il confronto internazionale sugli scenari per il dopo guerra. Gli Usa insistono per la soluzione dei “due Stati, due Popoli”: la convivenza pacifica tra Israele e Palestina. C’è molto lavoro politico da fare, perché negli ultimi anni, prima con Donald Trump poi con lo stesso Biden, la leadership statunitense si era disinteressata della questione. Il Segretario di Stato Antony Blinken, intanto, ha già rafforzato la squadra dei suoi funzionari negli Stati arabi più moderati (almeno in politica estera), come Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi, Qatar ed Egitto. Gli alleati tradizionali stanno dando una mano, in particolare i Paesi riuniti nel G7 e quindi, oltre agli Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Giappone e Canada. I contatti, le videoconferenze tra gli sherpa sono costanti.

Gli Stati Uniti premono: deve essere l’Autorità palestinese a governare anche Gaza, oltre alla Cisgiordania. Gli europei sono mediamente scettici: il gruppo dirigente raccolto intorno all’anziano leader Abu Mazen (88 anni) è troppo screditato. Inoltre: come scardinare la presa di Hamas sulla popolazione civile? È interessante notare la distinzione fatta dallo stesso Blinken, nella conferenza stampa di Tel Aviv il 30 novembre scorso: “Hamas deve deporre le armi e consegnare i leader responsabili per la strage del 7 ottobre”. Come dire: vogliamo i capi, non siamo qui per eliminare tutti i militanti e tutti i simpatizzanti di Hamas. Questo non significa immaginare che nel futuro di Gaza ci sarà spazio per una parte dell’organizzazione terroristica. Non siamo ancora a quel punto.

Si ragiona, inoltre, su un altro schema per la transizione: coinvolgere le Agenzie dell’Onu già presenti nella Striscia. Ci sono diversi problemi pratici da risolvere, dalla sicurezza alla logistica. Ma il più spinoso, forse, è politico: serve una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ciò significa trovare un’intesa tra i cinque membri permanenti: Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. Il mondo arabo-musulmano sta tentando una mediazione. Dopo il vertice su Gaza, promosso dall’Arabia Saudita, l’11 novembre scorso a Riad, una delegazione dell’Organisation of Islamic cooperation è stata incaricata di sondare le capitali dei cinque Paesi chiave dell’Onu. L’Iran fa parte dell’organizzazione, ma non di questa missione esplorativa. Prima tappa: Pechino, poi Mosca, Londra e Parigi. Il 29 novembre c’è stato l’incontro con il Segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres a New York. Ora dovrebbe esserci il passaggio a Washington. Si vedrà se matureranno le condizioni per un accordo tra le grandi potenze nel Palazzo di Vetro.