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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 2 novembre 2023

Il campo di Jabalia è il luogo simbolo del conflitto israelo-palestinese: da qui iniziò la prima Intifada: centomila persone in poco più di un chilometro quadrato, senza null’altro che Hamas e aiuti umanitari. Il 9 dicembre del 1987 un camion delle forze di difesa israeliane (Idf) si scontrò con un veicolo palestinese e uccidendo quattro civili, tre dei quali vivevano nel campo profughi di Jabalia. Furono quei morti, i morti di Jabalia, a dare inizio alla prima Intifada. Per gli israeliani si trattò di un incidente, un evento accidentale, per i palestinesi i soldati uccisero intenzionalmente i quattro civili. Il giorno successivo, dopo i funerali, iniziarono gli scontri tra i soldati israeliani e le famiglie delle vittime, scontri che segnarono l’inizio della rivolta contro l’occupazione che segnò un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese.

Si formarono comitati di volontari, gli studenti misero in piedi una resistenza coordinata con i palestinesi che lavoravano in Israele o negli insediamenti israeliani e presero parte al boicottaggio economico: rifiuto di pagare le tasse, di guidare auto palestinesi con patente israeliana, di svolgere lavori non qualificati. Poi cominciarono a barricare le strade e - ciò che in seguito definirebbe la resistenza palestinese - a lanciare pietre contro carri armati e infrastrutture israeliane. Avevano tutti un unico obiettivo: porre fine all’occupazione. In sei anni, dal 1987 al 1993, morirono più di 1.000 palestinesi e 160 israeliani, e l’esito di quella stagione furono gli accordi di Oslo, una tabella di marcia che avrebbe dovuto portare alla creazione di uno Stato palestinese entro cinque anni e alla creazione dell’Autorità Palestinese. Oggi, trent’anni dopo, il campo di Jabalia torna a titolare i giornali. Il campo, considerato una delle roccaforti di Hamas, è stato colpito già tre volte: il 12, il 19 e il 22 ottobre, nelle ultime 24 ore è stato bombardato due volte dall’esercito israeliano.

Due attacchi in due giorni - Martedì Israele ha dichiarato di aver colpito un comando di Hamas e una rete di tunnel in un’operazione combinata di truppe di terra e un attacco aereo, le bombe ad alta precisione hanno colpito il campo, radendo al suolo vari condomini. Ieri mattina, l’aviazione israeliana è tornata di nuovo a colpire l’area. L’Idf ha dichiarato di aver eliminato Ebrahim Biari, che si ritiene agisse come comandante generale delle unità di Hamas nel Nord di Gaza, a capo della brigata Jabalia, che avrebbe utilizzato il campo per l’addestramento e la preparazione delle operazioni e stoccare armi e munizioni. Un portavoce di Hamas ha però negato che il comandante Biari si trovasse nella zona colpita.

L’attacco ha provocato la morte di 50 persone, almeno altre 150 sono rimaste ferite, secondo le autorità palestinesi che hanno denunciato che, nell’attacco, l’Idf non ha fatto distinzione tra civili e miliziani. A Jabalia, in meno di 24 ore, sarebbe stato violato due volte il principio di proporzionalità, il principio che prevede che se l’attacco non offre un vantaggio tangibile dal punto di vista militare, chi attacca ha l’obbligo di contenere i danni a carico dei civili.

Che l’esercito israeliano non abbia fatto distinzione tra civili e miliziani lo ha confermato martedì sera anche il colonnello Richard Hecht, portavoce dell’Idf, alla Cnn. Intervistato da Wolf Blitzer che gli chiedeva se l’esercito fosse al corrente della presenza dei civili ha risposto: “Questa è la tragedia della guerra, abbiamo detto loro di spostarsi a Sud”. Il campo di Jabalia si trova nel Nord di Gaza, un’area per la quale l’esercito israeliano ha emesso ordini di evacuazione, ma come ricorda Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, “l’avvertimento non esonera le parti dall’obbligo di proteggere i civili. I civili che non evacuano devono comunque essere protetti”. Incalzato ancora da Blitzer che gli ha chiesto: “Quindi avete deciso comunque di sganciare la bomba?” il colonnello Richard Hecht ha poi detto: “Stiamo facendo il possibile per ridurre al minimo le morti civili”. Il minimo è mostrato dalle immagini delle ore successive. Centinaia di persone intorno al vasto cratere lasciato dalla bomba che cercano di estrarre corpi o pezzi di corpi, tra loro decine di donne e bambini.

La Storia si ripete - Jabalia è un luogo simbolico nella storia del conflitto israelo-palestinese, il luogo dell’inizio delle rivolte dell’Intifada, dei comitati popolari, il punto di incontro dell’attivismo internazionale nella Striscia, ma anche un luogo in cui gli eventi si ripetono tragicamente. Durante il conflitto del 2014 l’artiglieria israeliana colpì una scuola dell’Unrwa, uccidendo almeno 15 persone, e ferendone 100. Tremila persone si erano ammassate nella scuola femminile di Jabalia dopo che l’esercito israeliano aveva avvertito i civili di lasciare le loro case per non rischiare la morte sotto i bombardamenti. Il primo colpo arrivò subito dopo la chiamata alla preghiera mattutina, quando la maggior parte di coloro che si erano rifugiati dormivano. Allora come oggi gli sfollati della guerra si rifugiavano dove potevano: nelle scuole, negli ospedali, in luoghi che ritenevano essere protetti e sicuri, perché i funzionari dell’Onu fornivano ogni giorno a Israele i dettagli delle strutture scolastiche dove cercavano riparo i civili. I funzionari delle Nazioni Unite descrissero la morte di bambini nel sonno come una “vergogna per il mondo”, accusando Israele di aver compiuto una grave violazione del diritto internazionale. Ban Ki-moon, che ai tempi era il segretario generale dell’Onu, definì l’attacco “oltraggioso e ingiustificabile” e chiese “responsabilità e giustizia”. Pierre Krähenbühl, che era commissario generale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, disse che il bombardamento della scuola è stata una “grave violazione del diritto internazionale da parte delle forze israeliane. I bambini sono stati uccisi mentre dormivano accanto ai loro genitori sul pavimento di un’aula in un rifugio designato dalle Nazioni Unite a Gaza. Bambini uccisi nel sonno; questo è un affronto per tutti noi, una fonte di vergogna universale. Oggi il mondo è disonorato”. Da allora sono passati nove anni, la maggior parte degli abitanti di Jabalia ha meno di 18 anni. I bambini che nel 2014 si rifugiavano nelle scuole delle Nazioni Unite in fuga dalle bombe sono diventati ragazzi e giovani uomini così, stretti tra il blocco della Striscia, le regole di Hamas, le regole di guerra non rispettate e crimini rimasti impuniti. Una storia che si ripete ogni volta in una forma peggiore.