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di Antonella Patete

redattoresociale.it, 11 luglio 2023

I percorsi di consapevolezza sono attivi in 15 istituti penitenziari, grazie al contributo dell’8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. Entro fine anno coinvolte 5 nuove carceri e attivato un nuovo corso di formazione per gli operatori.

In carcere il tempo non manca mai. Per chi si trova in stato di detenzione può essere un problema, ma anche una risorsa. Sta forse proprio in questo il segreto del successo dei percorsi di consapevolezza realizzati dall’associazione Liberation Prison Project grazie al contributo dell’8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. “In carcere portiamo percorsi di consapevolezza e introduzione alla meditazione, partendo dalla convinzione che sia possibile lavorare sul piano dell’introspezione e del miglioramento di sé - spiega Maria Vaghi, segretaria generale di LPP Itali. Ci ispiriamo alla filosofia buddhista, ma seguiamo un approccio completamente laico, basato sull’osservazione delle emozioni e della mente, partendo dall’attenzione al respiro”.

Come nasce il progetto - LLP nasce nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa della monaca buddhista Robina Courtin, che ha fatto visita in vari istituti penitenziari dopo aver intrattenuto per un certo periodo una corrispondenza con un uomo detenuto. Poi a poco e poco il progetto è maturato e nel 2006 è sbarcato per la prima volta in Italia. “Abbiamo cominciato a svolgere l’attività in maniera regolare a partire dal 2009, ma il progetto è decollato davvero solo nel 2019, quando abbiamo cominciato a beneficiare dei fondi dell’8 per mille dell’Unione Buddhista Italiana - prosegue la segretaria -. E oggi siamo attivi in 15 istituti penitenziari italiani con un 22 operatori formati ad hoc, che conducono gruppi settimanali composti da 12-15 persone”.

Un progetto in espansione - Da Milano a Palermo, passando per Treviso, Modena e Alghero i percorsi di LLP sono attualmente attivi in tutta la Penisola. Ma il progetto è in espansione: entro settembre i gruppi di meditazione partiranno in 5 nuove carceri e il prossimo ottobre avrà inizio il quarto corso di formazione per gli operatori, che si svolgerà in presenza presso l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia (Pisa). “Puntiamo molto sulla formazione - chiarisce Vaghi -. I nostri operatori praticano la meditazione da lungo tempo, hanno già un’esperienza nella conduzione dei gruppi e spesso sono psicologi, counselor, assistenti sociali, cioè persone che svolgono professioni nella relazione di aiuto”.

Come si entra a far parte di un gruppo - Per chi è in carcere l’adesione ai gruppi di consapevolezza e meditazione è totalmente volontaria. Ci si arriva per passaparola o su suggerimento dei funzionari giuridico-pedagogici, quelli che normalmente vengono chiamati educatori. “Lavoriamo con una percentuale bassa della popolazione detenuta, pari a circa il 5-7% del totale di quelli presenti in ogni carcere - aggiunge la segretaria -. Nel carcere di Milano-Bollate, dove la nostra presenza è più consolidata, abbiamo 4 operatori e 5 gruppi, più alcuni incontri individuali, coinvolgendo un totale di 80-85 persone detenute ogni settimana. Per partecipare ai gruppi è necessaria una conoscenza base della lingua italiana e soprattutto bisogna trovarsi in una fase di relativo equilibrio: le persone con problemi psichiatrici e quelle che sono ancora nella prima fase di disintossicazione da dipendenza da sostanze rischiano di non trarre benefici dalla pratica e, anzi, di potenziare il proprio stato di irrequietezza”.

Dalla parte delle vittime - “Spesso le persone arrivano nei gruppi nervose e con difficoltà a mantenere la concentrazione: dormono male, sono reattive, si lasciano sopraffare dagli eventi - osserva Vaghi -. Poi attraverso la pratica scoprono di avere disposizione degli strumenti, a partire proprio dal respiro: un elemento che abbiamo tutti e su cui si può lavorare per imparare a riconoscere i segnali che il corpo ci manda, per dargli un nome e per prevenire le reazioni istintive ogni volta che si presentano. È una capacità che, se allenata, può fornire degli strumenti molto potenti a ciascuno di noi”.

Per Liberation Prison Project, però, lavorare con le persone detenute significa anche lavorare a favore delle vittime. “Sono proprio le vittime il nostro primo focus - chiarisce la segretaria -. Chi è in carcere prima o poi farà ritorno in società. Vediamo spesso che il beneficio che traggono dai percorsi di consapevolezza e meditazione non è solo personale, ma anche dei familiari e delle persone che circondano l’autore di reato”. Perché spesso chi compie un reato ha anche una famiglia, che paga a sua volta il prezzo della colpa e sono in molti a soffrire del fatto di non poter essere di aiuto ai propri familiari, soprattutto ai figli. A volte però anche la pratica della meditazione più aiutare a stare più vicini ai propri cari. Come è successo a Mario (nome di fantasia): un giorno che suo figlio era agitato, è stato proprio lui a insegnargli a riconquistare la calma. Come? Concentrandosi insieme sul ritmo del respiro.