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dialogo tra Valeria Parrella e Caterina Bonvicini

La Stampa, 14 marzo 2022

Non dimentichiamo i profughi che arrivano dal mare, anche loro vittime delle guerre. Ciao Caterina, che triste scriverci in questi giorni di guerra così vicina e così virulenta. Eppure, tanta parte attorno a noi dice: “Ma dov’eravate quando bombardavano la Siria e dove siete ogni giorno in cui uccidono un palestinese?”.

Io lo so dov’eri tu, lo racconti in questo libro, ma te lo chiedo lo stesso, raccontamelo tu, e dimmi perché, secondo te, i morti si vivono per sottrazione e mai per addizione (sì- ma e non sì - anche), dimmi se è vero che esistono migranti di serie A e di serie B.

Bonvicini. Può stupire, ma la distinzione fra profughi di serie A e di serie B esiste persino sui barconi, che noi a bordo con più eleganza chiamiamo Target. Quelli di serie B, quelli che hanno i posti peggiori, magari in stiva, dove poi muoiono asfissiati dal fumo dei motori, sono sempre i subsahariani, che hanno meno soldi da consegnare ai trafficanti. Penso al razzismo dei libici che gestiscono i lager e torturano solo chi ha la pelle nera. Questo discrimine si vede addirittura a bordo, anche se pochi lo raccontano. Mi ha colpita molto la storia di alcuni bambini siriani che masticavano del pane e lo sputavano in faccia a una bambina sordomuta nigeriana. Così, per divertirsi. Anche se venivano tutti dalla stessa barca di legno. Poi quella bambina sordomuta ha salvato la vita alla sua aguzzina siriana avvertendo l’equipaggio che si era arrampicata su una scaletta e stava per cadere in mare, con un gesto. La propaganda sovranista è banale, la realtà è molto più complessa. Giorgia Meloni, indignata come tutti dalla guerra di Putin, subito indica i profughi reali, li chiama così, e secondo lei sono diversi da quelli che attraversano il Mediterraneo. Ma la Libia e la Siria dove le mettiamo? Non sono guerre di Putin anche quelle? Chi ha appoggiato Haftar e Assad? Vogliamo parlare delle influenze russe nella destabilizzazione del Sahel? Poi c’è tutta la retorica sulle donne e i bambini. Io non ho mai incrociato gommoni o barche di legno senza donne e bambini. Alcuni erano pieni, il portellone della nave sembrava il cancello di un asilo. Dovrebbero affogare solo perché ci sono degli uomini a bordo? Uomini, poi. La burocrazia non ha capito niente del Mediterraneo: sono adolescenti o ragazzi di appena vent’anni, che in Italia noi terremmo ancora in casa, trattandoli come bambini. Un trentenne si trova raramente, e viene guardato male, gli altri lo considerano un vecchio. Hanno la stessa età dei soldati russi di leva, che sono stati chiamati per un’esercitazione e poi sono stati mandati a morire in Ucraina. Io mi strazio anche per loro, quando Anna Zafesova racconta che le madri scoprono che sono stati uccisi dai canali Telegram degli avversari. Perché in Russia la parola guerra non si deve pronunciare. Le madri dei ventenni che muoiono nel Mediterraneo non le avverte nessuno. Mi ha colpita la storia raccontata da Viola Ardone, sempre su questo giornale. Un bambino ucraino che a undici anni ha percorso da solo cento chilometri fino alla frontiera. Mi veniva da piangere, ma nel Mediterraneo si piange sempre così: migliaia di ragazzini di quell’età partono da soli. Affrontano il deserto, la violenza della Libia e il mare, per anni. Il dolore è uguale. Il resto è solo politica, o propaganda, non tanto diversa da quella russa, alla fine.

Parrella. Il tuo nuovo libro è così colorato da fare male, le fotografie di Valerio Nicolosi sono brucianti. Come è possibile trarre tanta bellezza dal dolore? E altrimenti cosa ci resterebbe? Ce n’è una che non smetto di guardare: è dell’agosto 2018: un giovane sudanese, all’alba, vede la costa europea per la prima volta…

B. Quella foto di Valerio, come tutte le sue, dice la verità. Ho guardato a lungo la costa con loro, anche perché ci tenevano per giorni e giorni senza un porto, a ballare sulle onde, anche con il tempo brutto. A bordo usiamo la parola Standoff, punto cieco. Ma cieco non è, perché la terra si vede eccome, anche se è tutta sfumata. Da lontano, la costa sembra tremare. E tremano loro, che non sanno cosa aspettarsi. Alcuni ti chiedono addirittura di restare sulla nave, perché hanno paura a scendere. Intuiscono che una volta sbarcati non riceveranno la stessa gentilezza. Altri sono pronti a tuffarsi e i soccorritori devono buttarsi in acqua per recuperarli, prima che affoghino per un sogno. Un sogno destinato a finire presto, perché l’accoglienza è orribile. Ma loro ragionano in un altro modo: sempre meglio che stare in Libia, pensano. La costa italiana significa: almeno non verrò torturato tutti i giorni alle sei di mattino. Sono disposti a morire in mare pur di non tornare in Libia, in fondo è un dolore che dura meno. Questa, forse, è la vera differenza fra i profughi ucraini e quelli del Mediterraneo. Gli ucraini desiderano tornare a casa, quando la guerra sarà finita, anche se non sanno cosa troveranno fra le macerie. Per i ragazzi del Mediterraneo è diverso. Tornare indietro significa tornare in Libia, da cui si esce solo affrontando il mare.

P. Quando sei partita, avevo paura, lo dissi alle altre amiche scrittrici della nostra amata chat, forse lo dissi anche a te: che avevo paura che non sarebbe tornata indietro la nostra Cate ma una donna nuova. È successo e, se sì, in cosa sei cambiata? E dopo mi dici anche se c’è un confine tra la cittadina e la scrittrice, se c’è un posto privilegiato in cui si incontrano e come.

B. Sì, sono profondamente cambiata. Ma la scrittura non c’entra, è solo un mezzo come un altro, è quello che ho. Il mio cambiamento va molto oltre. È quello che sperimentano tutti quelli che attraversano il Mediterraneo. Non si torna indietro da lì. Me ne rendo conto dal bisogno che ho di stare con le persone che hanno vissuto quello che ho vissuto io. Qualche sera fa, io e Fulvia Conte, un’amica soccorritrice che ha vent’anni meno di me, siamo rimaste a parlare in cucina fino alle tre di mattina. Sentivamo l’urgenza di dirci tutto quello che potevamo, perché lei è stata per un anno in mare e ripartirà presto con la Geo Barents di Medici Senza Frontiere, quindi non volevamo perdere un minuto insieme, a costo di non dormire. Fulvia a ventotto anni ha già salvato 2.500 persone. In guerra si contano i morti, nel Mediterraneo si contano i vivi. E dieci cadaveri, precisa lei, se parliamo di numeri. Perché il Mediterraneo è questo: un’alternativa secca fra vita e morte. A vent’anni Fulvia ha già tirato su dieci cerniere sul viso dei suoi coetanei.

P. In questi terribili giorni più di una volta hai richiamato la nostra attenzione sul lavoro che sta svolgendo Valerio Nicolosi, raccontaci dove sta e cosa vede.

B. Valerio non è solo un fotografo e un giornalista: è uno che parte. Prima di ragionare sul mondo, lui vuole starci. Infatti, fino a qualche giorno fa era a Kiev. Che sia il Mediterraneo o l’Ucraina non gli importa. Era in prima linea anche con i terremotati dell’Aquila e a Gaza, fra le bombe. È fatto così. Lui va. Poi coglie, capisce, racconta. Le sue fotografie sono il corrispettivo della mia narrazione a parole, in termini di empatia.

P. Quale è il punto cruciale?

B. Il tema della Guardia Costiera libica è cruciale. Parliamo di gente che cosparge i naufraghi di benzina e tiene l’accendino in mano. Di navi, finanziate dall’Italia, che partono a tutta velocità con un ragazzo ancora aggrappato alla scaletta, dopo aver fatto affogare sessanta persone. Nessuno si comporta così in mare. Del resto, a terra fanno di peggio. I migranti sono merce per il business dei lager e della tortura. Dalle inchieste di Nello Scavo, Nancy Porsia e Francesca Mannocchi sappiamo tutto di gente come Bija, e come funziona quel traffico te lo racconta anche qualsiasi ragazzo sul ponte di coperta. In questi giorni guardo ammirata l’Europa, che si batte per i suoi valori, e non posso fare a meno di pensare che in tutta questa civiltà c’è una terribile contraddizione. Nel Mediterraneo, appunto.

P. Cosa significa Mediterraneo?

B. Paradossalmente, lo collego a una piscina. Mi torna sempre in mente il giorno in cui ho insegnato a nuotare a due bambini ivoriani di sei anni che avevano fatto la traversata in gommone senza saper nuotare. Era bellissimo vederli con dei bracciali arancioni invece che dentro un salvagente arancione. E così ho pianto convulsamente davanti a un film di Checco Zalone: in Tolo Tolo c’è la stessa scena. Pochi giorni fa ho ricevuto una fotografia della loro prima pagella, mi ha emozionata. Ho tanta voglia di ripartire, per altre pagelle.

P. Tantissimi cittadine e cittadini europei seguono le avventure e le storture del sistema di salvataggio in mare, si trovano a difendere le ONG e a deprecare gli accordi con la Libia. Cosa può fare chi a bordo non salirà mai?

B. Possiamo parlarne tanto, innanzitutto. Perché l’attenzione sul Mediterraneo sta troppo calando. E possiamo donare qualcosa alle Ong, che ne hanno bisogno: stare in mare costa. Il nostro governo spende miliardi per rimandare le persone dai loro torturatori, noi possiamo solo fare una colletta contro questo “naufragio di civiltà”, come lo chiama Papa Francesco (lo cito da atea e da scrittrice, perché mi piacciono le parole esatte). In questi tempi cupi, il faro delle navi mi mette allegria. Contiamo i vivi, dove si può.