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di Riccardo Arena

La Stampa, 9 agosto 2023

Il boss operato e ricoverato a L’Aquila. L’interrogatorio dopo il fermo: “Mi hanno preso per la mia malattia”. Il legale: “Non può stare al 41 bis”. Un boss ferito nell’orgoglio per una cattura che non si aspettava, con buona pace dei dietrologi d’accatto, e anche un boss malato, che magari pensava a un’uscita di scena da questo mondo in grande stile, quando - il 13 febbraio scorso - pensò di abbozzare una specie di show con due clienti poco disponibili, i magistrati che dopo trent’anni avevano posto fine alla latitanza dell’ultimo grande capo libero di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro.

Come Bernardo Provenzano, come Totò Riina, che sembravano non dover morire mai, il capomafia di Castelvetrano potrebbe essere entrato nell’ultima fase della vita. Malato da tempo e convinto di essere stato preso proprio per questo - lo ha detto ai pm Maurizio de Lucia e Paolo Guido, nel verbale reso appunto il 13 febbraio e depositato giusto ieri - Messina Denaro è stato di nuovo ricoverato nell’ospedale dell’Aquila, la città dove è detenuto dal giorno della cattura, avvenuta il 16 gennaio scorso da parte dei carabinieri del Ros.

Sta male, e si sapeva. Stava male pure Provenzano, che per oltre un anno ha vissuto quasi da vegetale al 41 bis, è stato male - anche se per molto meno tempo - Totò Riina. Per i due capi corleonesi si era aperto un dibattito sull’inutilità del regime di carcere duro per le persone gravemente malate o giunte alla fase terminale, per loro l’isolamento e i contatti limitatissimi furono di fatto bypassati solo negli ultimissimi giorni, quando fu consentito ai familiari di vegliare “Binu” Provenzano e poi, un anno e cinque mesi più tardi, a novembre del 2017, anche Riina. Ma in regime detentivo rimasero sempre: ora uno degli avvocati di Messina Denaro, Alessandro Cerella, sostiene che la situazione è del tutto incompatibile con la reclusione in sé, figurarsi col 41 bis. Ieri l’ex latitante è stato operato per un’occlusione intestinale, complicazione che potrebbe avere un collegamento più o meno diretto con il tumore al colon con cui Messina Denaro convive da ormai tre anni e che - lui ne è convinto - è stata l’unica via attraverso cui è stato possibile catturarlo. E questo anche se “non sono né un superuomo né un arrogante”, chiosa.

Del resto, con i suoi 61 anni il suo commiato non può essere pari a quello degli ultraottuagenari Provenzano e Riina. Il primo limitava le parole allo stretto indispensabile, addirittura nemmeno voleva far sentire la propria voce quando gli chiedevano le generalità durante i processi. E in breve finì con il disertare le udienze. Riina invece - che aveva 62 anni, qualche mese di più di Messina Denaro, quando fu catturato, il 15 gennaio 1993 - aveva manifestato baldanza e arroganza nella prima fase della vita da detenuto, per poi lentamente scemare nei deliri di onnipotenza e negli sfoghi registrati nelle conversazioni col compagno di socialità Alberto Lorusso, nel carcere di Opera, a Milano.

L’interrogatorio di Messina Denaro - il primo reso ai magistrati della Dda palermitana, di cui de Lucia è il capo e Guido l’aggiunto - è un florilegio di mafiologia, quasi un testamento anticipato con una premessa: “Non mi pentirò mai”. Fin qui molto Riina, un pizzico di Provenzano. Poi la conoscenza di Cosa nostra attraverso i giornali, la negazione del fondamento del concorso esterno (“reato farlocco”), che pare quasi un’anticipazione del dibattito politico-giudiziario di queste settimane. Ma lui non parla a caso, dice a chiare lettere che se si deve attribuire un reato a tutti quelli con cui ha avuto a che fare, “a Campobello di Mazara - dove trascorse la latitanza, indisturbato - dovete arrestare almeno due-tremila persone: di questo si tratta”. Ma poi no, di nuovo il sedicente non-mafioso fa capolino (“Però mi sento uomo d’onore”) quando dice che quasi nessuno sapeva chi fosse lui in realtà, in paese.

Ma va tolto il 41 bis a uno così? La pericolosità dei supercapi ha sempre sconsigliato qualsiasi allentamento, anche in limine mortis, e per questo il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto mette le mani avanti, dicendo che “tocca ai magistrati verificare se ce ne siano le condizioni”. Poi, in fondo Messina Denaro non pensa di essere pericoloso: “Mai commessi stragi né omicidi”. Per l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo ha una visione del mondo tutta sua: non di omicidio dovrebbero accusarlo ma solo di sequestro, come mandante, che ne sapeva lui che poi Giovanni Brusca avrebbe fatto assassinare il figlio del pentito Santino Di Matteo? E di fronte alla condanna all’ergastolo anche per questo reato, parla di “ingiustizie: quante ne devo subire?”.

C’è molto di Riina, in questo, ricorda le esternazioni del boss corleonese, che si definiva “il parafulmine” di tutte le trame d’Italia. Di certo c’è che ciascuno dei capi dei capi si porta nella tomba i suoi misteri: nessuno dei tre ha mai spiegato, chiarito, parlato apertamente. Messina Denaro ammette i contatti con Provenzano, per qualche affare, “ma mai né stragi né omicidi”. Figurarsi.