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di Giansandro Merli

Il Manifesto, 4 ottobre 2023

Nel ricordo del naufragio del 3 ottobre si stringono sopravvissuti, familiari e studenti. “Chiediamo di applicare a tutti i migranti la direttiva europea numero 55, come è stato fatto per i profughi ucraini”, dice Tareke Bhrane. Governo assente. A rappresentare le istituzioni nazionali solo la vicepresidente del Senato Castellone (5S), che cita l’articolo 10 della Costituzione.

Si può provare dolore per delle persone mai viste, degli estranei, degli stranieri? A Lampedusa sembra di sì. Alle 3.15 in piazza Piave una piccola folla circonda il memoriale “Nuova speranza”, lo scheletro di una barca avvolto da una spirale. Ci sono incisi i nomi delle 368 vittime del naufragio del 3 ottobre, avvenuto esattamente dieci anni prima. Gli sguardi sono calamitati da quelle parole che stanno al posto di chi non ce l’ha fatta, di chi sarebbe potuto essere qui. Il silenzio è rotto dai rintocchi delle campane, il buio dalla luce arancione di piccole candele.

I nomi diventano suoni sulle note di La Cura di Franco Battiato. Il pescatore Vito Fiorino, che per primo ha sentito le urla dei naufraghi e ne ha soccorsi 47, ricorda quei momenti terribili, parla del dolore di non essere riuscito a salvare tutti. “Siamo rimasti in mare per molto tempo, tanto tempo, troppo tempo”, cantano alcuni ragazzi mentre sullo sfondo suona una versione lenta di Nothing else matters, scritta dai Metallica. Poi torna il silenzio e nel silenzio si sente il rumore di chi tira con il naso, di chi se lo soffia. Le lacrime rigano i volti. Ognuno ha in mano un lumino da depositare ai piedi del monumento, per dargli luce.

Su un lato, appoggiati al muro, ci sono i sopravvissuti alla strage e i familiari delle vittime. Eritrei, giovani. Guardano il vuoto con gli occhi gonfi. Singhiozzano. La folla si muove magneticamente verso di loro. Li circonda. Li abbraccia. Piange chi dieci anni fa lottava tra le onde intorno al peschereccio. Piange chi li ha sentiti chiedere aiuto. Piangono gli studenti arrivati da vari paesi europei che quel giorno vivevano come ogni giorno. Si versano lacrime da un lato e dall’altro delle telecamere. Gli stomaci si annodano. A turno si abbraccia chi ha sofferto il naufragio in prima persona. Ragazze e ragazzi stringono forte i sopravvissuti. Passano loro le mani dietro la nuca. Siedono vicini, stretti, per offrire o chiedere una spalla su cui disperarsi insieme. Non si erano mai visti prima.

Qualche ora dopo il sole batte già forte sul lembo più meridionale d’Italia. La piccola piazza Castello è gremita. Tanti indossano le magliette del Comitato 3 ottobre: blu con la scritta dietro “10 anni di indifferenza”, tutto unito; nere con scritto davanti “Protect people not borders”. “Abbiamo fatto una cosa impossibile”, dice il presidente Tareke Brhane. In questi giorni non si è fermato un attimo. Presente a tutte le iniziative, sempre pronto a offrire una mano o rispondere a una domanda. “Chiediamo di dare un nome e un cognome a tutte le vittime. Chiediamo di applicare a tutti i migranti la direttiva Ue 55, come fatto per i profughi ucraini. Resteremo qui fino all’ultimo morto in mare”, continua.

In prima fila le autorità. Tra gli altri: il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino, l’arcivescovo di Agrigento monsignor Alessandro Damiano, il prefetto della città siciliana Filippo Romano. L’unica rappresentante nazionale delle istituzioni è Maria Domenica Castellone (5S), vicepresidente del Senato. Il governo non c’è e non stupisce. Da lontano la premier Giorgia Meloni dice che la lotta ai trafficanti è in nome dei morti in mare, il Pd risponde chiedendo una Mare Nostrum europea. “L’accoglienza di chi fugge dai conflitti o dalla fame non è solo un dovere etico, ma anche un obbligo giuridico”, afferma Castellone. Lo fa leggendo l’articolo 10 della Costituzione sul diritto di asilo. Sarebbe ordinaria amministrazione se proprio quel passaggio della Carta non fosse il vero obiettivo del fuoco di fila governativo partito dopo le sentenze della giudice Iolanda Apostolico che ha liberato tre richiedenti asilo trattenuti a Modica.

Il corteo si muove verso la Porta d’Europa, il monumento a chi non è riuscito ad attraversare il mare. In aria sventolano i cartelli con date e morti di altri naufragi: 29-5-2016, 245 vittime; 23-08-2020, 20 vittime; 18-03-2021, 66 vittime; e via così. “Le testimonianze dei sopravvissuti ci hanno trasmesso un grande dolore. Tutti dovrebbero ascoltarli”, dice Francesco, 17 anni. È venuto sull’isola da La Spezia, insieme a dieci compagni dell’istituto superiore Capellini-Sauro. Gaia ha la stessa età e frequenta il liceo artistico Cardarelli nel capoluogo ligure: “La cosa che mi colpisce di più è l’indifferenza rimasta in questi dieci anni”.

Sfilano anche alcuni abitanti di Lampedusa, ma non sono tantissimi. Due signore vestite di nero, con la borsa scura e gli occhiali da sole si tengono sotto braccio. Non hanno molta voglia di parlare. “Viviamo questo dolore in silenzio”, dicono. Ricordano tutto di quel giorno. Poi una aggiunge: “A me fa più male perché anche mio marito è naufragato. Lo hanno ritrovato morto il 26 agosto di tre anni fa”. Lei si chiama Maria Flavia Pane Bono.

Sotto la Porta d’Europa parlano l’arcivescovo di Agrigento e l’imam di Catania. Il sindaco Mannino punta il dito contro il governo: “Mancano politiche migratorie serie, un cambio di passo. Così Lampedusa rimane qui a fare quello che può: salvare vite. Mentre la politica nazionale ci guarda e non fa niente”. Due sopravvissuti, diventati cittadini svedesi, ricordano: “Nessuno rischia la vita se non c’è un motivo forte a spingerlo”.

Poi le persone si muovono verso il mare. Silenziosamente. Guardano al punto del naufragio. Lanciano in acqua dei fiori gialli. Il nodo allo stomaco ritorna. Sui volti scendono nuove lacrime. Si sente ancora singhiozzare. Sopravvissuti, familiari, attivisti, studenti si stringono a vicenda. Gli altri restano seduti sugli scogli, con lo sguardo e i pensieri persi nel vuoto.

Poco più tardi l’ultimo momento: a bordo di motovedette della guardia costiera e di finanza, oltre ad alcune barchette private, si raggiunge il luogo esatto dove il barcone è affondato, per lanciare un’ultima corona di fiori. Sembra di poter toccare la costa allungando la mano. Si distinguono i colori delle case. Dopo un viaggio di migliaia di chilometri le vite di 368 persone si sono infrante a poche centinaia di metri da un porto sicuro.

Intanto in direzione contraria arriva un’imbarcazione della guardia costiera: sul ponte ha una ventina di naufraghi. Altri quattro barchini giungono nel corso della giornata. In serata, mentre si attendono nuovi arrivi, all’interno dell’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono circa 300 persone, una trentina i minori non accompagnati. Almeno a loro è andata bene.