di Antonio Maria Mira
Avvenire, 21 agosto 2024
Il coraggio di denunciare caporali e sfruttatori. Trovando per fortuna chi ascolta, aiuta, protegge. Accade al Nord come al Sud, con numeri importanti: 46 braccianti pachistani e afghani a Pordenone, 40 nordafricani a Paternò e Scordia, nel Catanese. Con processi che hanno portato alla condanna di caporali e sfruttatori e a una nuova vita degli immigrati, con permesso di soggiorno e un vero lavoro. “Dopo che abbiamo appreso come stavano le cose per noi, ho deciso che ne avevo abbastanza di essere sfruttato e trattato come uno schiavo”.
A parlare così è Humayun Khan, uno dei 46 braccianti pachistani e afghani che nel 2011 si presentarono alla Flai Cgil di Pordenone per raccontare la loro storia di sfruttamento: 14 ore di lavoro al giorno, sette giorni a settimana, nelle vigne ma anche nel trasporto dei polli, anche entrambi i lavori per 4-5 giorni, lavorando di notte. Per 2-300 euro al mese, lasciando il resto al caporale pachistano. Ovviamente tutto in nero. E con gravi rischi, come racconta un altro di loro, Afaq. “Un bracciante si è ferito ad una mano con le forbici.
Il taglio era profondo usciva molto sangue e gli faceva molto male, ma Amir (il caporale, ndr) e l’italiano proprietario del campo dove stavamo lavorando, non hanno voluto portarlo in ospedale. Lo hanno fatto sedere con la mano fasciata sul bordo del campo e lo hanno fatto aspettare che noi finissimo di lavorare per andare a casa. Una volta a casa stava molto male, ma Amir invece di portarlo in ospedale lo ha minacciato di fargli ancora più male se non smetteva di lamentarsi. In seguito gli ha portato delle pastiglie e delle bende pulite e lo ha lasciato a casa per una settimana. Poi il ragazzo è sparito e non ho mai saputo più nulla di lui”.
Per questa e tante altre disumanità, in 46 decidono di rivolgersi al sindacato. “In Cgil abbiamo appreso che noi eravamo stati sfruttati e che non erano stati rispettati i nostri diritti di lavoratori”, ricorda Tazeeb. Così tutti insieme, accompagnati dai sindacalisti, hanno presentato denuncia, sono partite inchieste e processi. “La vertenza è stata lunga e ha portato alla luce un vasto giro di caporalato e sfruttamento - racconta Dina Sovran, segretaria generale Flai Cgil Pordenone. Aggiungo che dietro a caporali pachistani ci sono anche le aziende italiane che, consapevoli o meno, hanno permesso che questi lavoratori venissero sfruttati”. La denuncia dei 46 fa ottenere a tutti, contemporaneamente, il permesso di soggiorno. Un numero record in Italia. Hanno poi partecipato a corsi di italiano e trovato finalmente un lavoro vero. Humayun fa vedere sul cellulare la foto dei due figli di 5 e 8 anni e riflette.
“Sai perché sono partito? Perché vorrei che un giorno questi miei figli impugnassero una penna per scrivere e non un fucile per sparare”. Ci spostiamo 1.400 chilometri a Sud, alle falde dell’Etna, nei Comuni di Paternò e Scordia. Terra ricca, agrumi soprattutto, la famosa “arancia rossa”. “Durante la raccolta, da novembre ad aprile, c’è un forte flusso di lavoratori migranti. Alcuni trovano casa ma molti finiscono nei ghetti- ci dice Rocco Anzaldi, segretario generale della Flai Cgil di Caltagirone -. C’è molto sfruttamento perché i ragazzi che vivono nei ghetti sono disposti a lavorare per qualsiasi cifra. Qui è molto diffuso il lavoro grigio. Le giornate registrate all’Inps sono sempre poche rispetto a quelle realmente lavorate”.
A Scordia in 100 vivono in un ex magazzino, un posto invivibile, privo di infissi e servizi igienici, e senza acqua. A Paternò c’è una tendopoli/baraccopoli che ogni anno arriva a ospitare circa mille persone e dove opera la Caritas di Catania. Due mesi fa un ragazzo è morto in un insediamento informale. Non era andato a lavorare perché non si sentiva bene ma quando gli altri sono tornati lo hanno trovato morto, ufficialmente per cause naturali.
“Ne sentiamo il peso perché se invece di essere lì fosse stato in un posto normale, con altre persone, forse poteva essere soccorso”. Per questo “bisogna accelerare i tempi per i permessi di soggiorno per chi denuncia. Non possono stare qui senza lavorare per tanto tempo. Se non rendiamo le procedure più snelle andranno a farsi sfruttare da qualche altra parte pur di mandare qualcosa a casa”. Per 40 braccianti è però iniziato un nuovo percorso, grazie all’associazione antitratta Penelope che partecipa al progetto del Ministero per le pari opportunità e ha firmato un protocollo col sindacato.
“Negli ultimi quattro anni, da quando è partito il progetto, siamo riusciti a raccogliere 40 denunce di sfruttamento lavorativo, persone che da irregolari hanno deciso di collaborare con la giustizia - ci dice Simona Favara. Grazie a questo hanno ottenuto il nullaosta dai magistrati che hanno seguito le indagini, accedendo poi al permesso di soggiorno e a un programma di protezione”.
Penelope ha una casa di accoglienza in emergenza che attualmente ospita 15 persone, ma ne sta aprendo una seconda con altri 10 posti. “Appena acquisiscono la residenza e un contratto di lavoro, possono convertirlo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Noi cerchiamo di accompagnarli nell’autonomia, poi decidono loro dove andare a lavorare. Fino ad ora nessuno ha avuto problemi”.