di Gianfranco Schiavone
Il Manifesto, 16 ottobre 2024
Tutto quello che non sta in piedi nell’operazione Albania. A partire dalle procedure di screening che non poggiano su nessuna norma di legge ma sulla semplice prassi. La prima cosa da chiedersi di fronte alla notizia che sedici migranti sono stati trasportati forzatamente in Albania è come sia stata decisa la selezione. Come e perché, vale a dire, questi sedici sono stati separati dagli altri per i quali invece il soccorso in mare si conclude in Italia, dove accedono alle procedure di asilo ordinarie e vengono ospitati in strutture aperte. Non occorrono competenze tecniche particolari per capire che questa selezione incide sulla condizione giuridica (e sulla vita) delle persone interessate. Eppure le operazioni di screening per l’invio coattivo in Albania non sono disciplinate da nessuna norma, neanche di rango secondario, come se fosse normale attuarle sulla base di una semplice prassi.
La messa in pratica del Protocollo tra Italia e Albania apre enormi problematiche giuridiche. Il presupposto di fondo è la possibilità, rivendicata dal nostro governo, di applicare nelle aree soggette alla giurisdizione italiana ma in territorio albanese il diritto italiano e quello dell’Unione europea sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri “in quanto compatibili”. Ma è un presupposto quanto mai incerto. Nessuno dei testi normativi vigenti e neppure i nuovi regolamenti sull’asilo sembrano consentire un’applicazione del diritto dell’Unione al di fuori del territorio (o delle frontiere) degli Stati membri.
LE PERSONE soccorse nelle acque internazionali vengono dunque forzosamente portate dall’Italia in un Paese terzo al solo scopo di limitare l’esercizio delle garanzie procedurali. Chi verrà detenuto nei centri in Albania, che sono lontani anche dai centri urbani di quel Paese (il centro di Gjader si qualifica come un esempio perfetto di campo di confinamento) non potrà comunicare con le organizzazioni che prestano assistenza legale ma solo con il gestore del centro, soggetto non indipendente perché agisce su incarico del ministero dell’Interno. Chi si trova lì confinato assai difficilmente potrà consultare un avvocato italiano, non potendo uscire dal centro (come scegliere un avvocato su una lista di nomi di sconosciuti? e una volta scelto, in quale lingua parlarci? con quale interprete? con quale mezzo? Il cellulare che non ha - o la cui scheda potrebbe non funzionare in Albania? Con il computer dell’ente gestore? Quanti minuti avrà a disposizione?) Sono tutte domande che vanno al cuore del principio di effettività della norma, ovvero il principio in base al quale il diritto enunciato deve essere concretamente esercitabile.
La questione dell’effettività del diritto si fa particolarmente acuta nel caso di ricorso contro il rigetto della domanda di asilo, decisione che verrà assunta dopo un’audizione fatta in videoconferenza. Secondo la nuova procedura il tempo per proporre il ricorso è drasticamente ridotto da quindici a sette giorni. Sette giorni per cercare un avvocato disponibile in Italia (in che modo?) fornirgli tutti gli elementi a sostegno del ricorso (in quali colloqui riservati? fatti dove?) e da parte dell’avvocato scriverlo e depositarlo. Tutto in sette giorni! Tutto ciò appare in contrasto con il diritto alla difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione. O forse, dobbiamo chiederci, nell’ottica del “diritto speciale del nemico” per queste persone tale diritto non deve esistere?
Non è finita qui. Nei centri usati come hotspot in Albania è previsto il trattenimento dei richiedenti asilo sottoposti alla procedura accelerata di frontiera, ma il principio cardine del diritto europeo è proprio il divieto di trattenimento generalizzato e l’obbligo di “una valutazione caso per caso” (Direttiva 2013/33/UE articolo 8) se attuare il trattenimento “solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione”. La procedura accelerata di frontiera che si prevede di realizzare in Albania esclude del tutto la possibilità di valutare una misura diversa dal trattenimento, che si configura dunque come l’unica opzione possibile. Dunque si tratta di procedura in radicale contrasto con il diritto europeo che aggira del tutto istituendo esattamente ciò che è vietato, ovvero un trattenimento generalizzato.
Da ultimo, una questione molto trattata anche sulla stampa negli ultimi giorni, ma non sempre ben chiarita. Questa procedura speciale di frontiera e il trattenimento sono possibili solo nel caso in cui il richiedente asilo provenga da un paese dichiarato sicuro. Ma che cos’è un paese di origine sicuro nel diritto europeo? È un paese nel quale, in modo generale e uniforme, non vi sono persecuzioni (definite dall’articolo 9 della direttiva 2011/95/CE), né torture, né trattamenti o pene inumani o degradanti, né minacce di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno.
La sentenza del 4 ottobre 2024 della Corte di giustizia dell’Unione europea afferma due importanti principi di diritto: il primo è che le condizioni di sicurezza devono essere soddisfatte in tutto il territorio affinché il Paese di origine possa essere considerato sicuro (e molti dei paesi designati dall’Italia non lo sono affatto sotto questo profilo); il secondo e non meno importante principio (di cui si è parlato poco) è che il giudice è tenuto a valutare in concreto se il paese di origine del richiedente è sicuro nel senso indicato dal diritto europeo; se non lo è la procedura diviene ordinaria e di conseguenza senza alcun trattenimento. In molte ordinanze i Tribunali competenti hanno ritenuto che Tunisia, Egitto, Bangladesh e altri paesi non siano sicuri e pertanto non hanno convalidato il trattenimento dei richiedenti asilo negli hotspot italiani. Spetterà ora al Tribunale di Roma, sezione specializzata sull’asilo, valutare i possibili profili di legittimità che avvolgono la prima attuazione pratica dell’accordo con l’Albania, con riferimento ai casi concreti delle persone che sono state coattivamente portate lì.