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di Alessia Candito

La Repubblica, 18 aprile 2024

Siamo entrati nel centro per i rimpatri di Caltanissetta e abbiamo incontrato i 73 trattenuti, fra loro anche un iraniano, con un grave disagio psichico e che agli ayatollah non potrà essere consegnato mai. “Lo sai che qui ci trattano come animali? Neanche un nome abbiamo più. Siamo un numero”. Mehdi è mani che si aggrappano a una griglia, occhi neri che superano le grate, un urlo che vuole essere di rabbia, ma sa solo di disperazione. Ed è un ragazzino. Ha 23 anni, ma sembra più piccolo, il suo italiano - quasi perfetto - sa di Nord Italia. Arrivato da minorenne è inciampato, ha commesso un reato, è finito in comunità. A Caltanissetta ci era arrivato per un progetto, parte del suo programma di riabilitazione. Ma gli hanno contestato la non convivenza con la sorella, che ha cittadinanza italiana. Ed è finito nel cpr di Pian del lago.

Una gabbia contenuta da una gabbia, che sta dentro a un’altra gabbia ancora. Nel centro, anche l’erba non è che un disegno stinto sui muri. Grigi. Come l’asfalto consumato dei camminamenti, il calcestruzzo vecchio che è pavimento, letto, tavolo, panca. Come i cancelli e le grate, irrobustite da reti che restituiscono un mondo a quadretti. Da anni i centri per il rimpatrio che il governo Meloni aveva promesso di moltiplicare in tutte le regioni sono un non luogo inaccessibile ai più. Nel giorno in cui le delegazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai) insieme a parlamentari di Pd, Avs, M5s e +Europa, hanno bussato alle porte degli otto cpr italiani, Repubblica è entrata in quello di Pian del Lago a Caltanissetta. Che ci stia avvicinando, lo suggerisce un brusio indistinto di umanità compressa, rotto dal suono di mani a palmo aperto che battono sulle grate, dalle urla di chi cerca di farsi sentire. A confermarlo, sono recinzioni e pattuglie che lo presidiano, come se fosse un carcere. Anche se per legge non lo è.

Chi sta dentro non ha commesso alcun reato, spesso semplicemente non ha documenti in regola. “In realtà, qui è peggio degli istituti di pena”, spiega il senatore dem Antonio Nicita che nella struttura ha effettuato diverse ispezioni e ci è tornato insieme alla deputata dem Giovanna Iacono e alla delegazione siciliana del Tavolo asilo e immigrazione, Fausto Melluso, Giuseppe Montemagno, Ben Ammar Amine di Arci e Rosanna Moncada di Cgil. “Mancano anche i servizi di base, non esistono attività, le condizioni - sottolinea Nicita - sono degradanti”.

La macchina delle convalide - Al momento i trattenuti sono 73, soprattutto tunisini, in larga parte da poco arrivati a Pantelleria o Lampedusa. Un gruppetto aspetta davanti al container - poco più di una roulotte - in cui avvengono le udienze di convalida. Hanno ciabatte ai piedi, vestiti stazzonati, lo sguardo perso. “Perché siamo qui - chiede Sabeur - quando siamo arrivati, ci hanno fatto firmare un foglio, ma io non ho capito. Perché siamo rinchiusi? Non abbiamo fatto niente”. Sulla carta l’assistenza legale c’è e la mediazione pure. Ma in massimo un quarto d’ora l’udienza - con il trattenuto, circondato da poliziotti e piazzato davanti a un pc, con giudice, mediatore e avvocato collegati in videoconferenza - si conclude. “Ma ora che succede?”, chiede Abdel che ha appena finito.

“La maggior parte vengono rimpatriati nel giro di qualche giorno, solo chi riesce a farsi assistere davvero può provare a far emergere le vulnerabilità”, spiega l’avvocata Ilenia Grottadaurea. Formalmente, quasi tutti gli ospiti vengono dai cosiddetti “Paesi sicuri”: Tunisia, Marocco, Egitto. A dispetto delle sentenze che in molti casi hanno bloccato il rimpatrio di default perché è necessaria una valutazione caso per caso e la questione è stata rimessa in mano alla Cedu, per tutti il trattenimento è pressoché automatico.

Shalid fuggito dall’Iran degli ayatollah, prigioniero a Caltanissetta - Ma in cpr ci finisce anche chi non potrà mai essere riportato indietro. Shalid è iraniano, il suo inglese perfetto racconta un percorso di studi avanzato, lui di sé nulla non sa dire. O almeno nulla di coerente. A volte racconta di essere inglese. Affetto da un grave disturbo psichiatrico viveva da clochard a Palermo. Abbandonato senza assistenza, perso nei suoi deliri, ha bucato l’audizione in commissione territoriale. Un giorno in strada ha dato in escandescenze, l’unica soluzione trovata per lui è stato sbatterlo in cpr. Succedeva 98 giorni fa. Adesso a stento riesce a parlare. “E ora sta meglio, quando gli hanno dato la medicina per giorni non si è mosso”, dicono i suoi compagni di modulo. Ha chiaramente bisogno di assistenza, l’Iran degli ayatollah non è certo un Paese sicuro. Per il giudice le sue condizioni sono compatibili con la permanenza in cpr.

La doppia condanna - “Oggi sono già andato due volte per la medicina. Il mio male è nella testa - dice Chaka - qui è aumentato, mi sento soffocare, è peggio che in carcere”. Non è l’unico che dopo un periodo di detenzione, come pena aggiuntiva abbia avuto il trasferimento in cpr. A dispetto della funzione riabilitativa della pena che la detenzione ha in Italia, per uno straniero spesso equivale alla perdita del permesso di soggiorno. “È una delle assurdità del sistema”, spiega Filippo Miraglia, responsabile nazionale Arci migrazioni. “Anche in termini meramente economici è insensato - osserva Nicita - lo Stato investe per riabilitare un detenuto e poi lo manda via? Sempre che ci riesca”.

Una gabbia vuota con una colata di cemento per letto - Nel frattempo chi è dentro aspetta. E ha solo una scelta, fuori e dentro. Fuori: uno spiazzo senza neanche una panca. Dentro: un corridoio buio, camerate con letti in cemento su cui sono appoggiati sottili materassini, lenzuola di carta che fanno da porte, in fondo un bagno che mostra i segni delle vecchie proteste, con pozze d’acqua e una puzza persistente che l’odore di detersivo non riesce a cancellare. In tutto il modulo, non c’è un libro, un giornale, un pallone. “Ci dicono che non si può”, dice Ahmed che fa l’operaio a Milano ed era andato a Palermo per festeggiare la fine del Ramadan con degli amici. “Mi hanno fermato per strada, non avevo tutti i documenti con me e mi sono ritrovato qui. Mi hanno tolto subito il telefono, ma lì c’è tutto”, spiega ancora sconcertato.

Famiglie spezzate - Noureddine nel suo - racconta - custodisce come un tesoro le foto e i documenti che provano che ha una figlia e una compagna in Germania. Mahdi li tiene ordinati e stampati in una cartellina: ci sono la laurea, gli attestati di lavoro, le referenze, i referti dell’ospedale. È del sud della Tunisia, in un’area che il presidente Kais Saied ha di fatto ceduto agli islamisti. Per aver passato la notte con una donna che non ha ancora sposato, ha rischiato di essere linciato. “Qui non mi hanno creduto, ma io non posso tornare lì”.

Anche Selim si dispera. Lui è in Italia è appena arrivato con la moglie, entrambi scappavano dalla famiglia di lei, che quel matrimonio ha tentato di impedirlo anche a coltellate. Lo confermano i segni slabbrati di vecchie cicatrici che lui ha su testa, collo, torace, schiena, ma l’industria del respingimento non li legge, non li vede. Dopo l’arrivo a Pantelleria, sono stati divisi. Lei è finita in un centro a Palermo, lui in cpr: già mesi fa aveva provato a lasciare la Tunisia, ma subito era stato rispedito indietro con un divieto di reingresso. “Non ci separeremo più”, gli aveva detto la moglie. L’Italia glielo ha imposto.