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di Simona Musco

Il Dubbio, 10 ottobre 2023

Dopo quelle inflitte dalla giudice Apostolico e dal Tribunale di Firenze, il dl incassa una nuova bocciatura a Catania. Dopo quelle inflitte da Iolanda Apostolico e dal Tribunale di Firenze, il decreto Cutro incassa una nuova bocciatura, ancora una volta dal Tribunale di Catania. A “bacchettare” il governo, evidenziando le incongruenze della norma italiana con il diritto comunitario, questa volta è il giudice Rosario Maria Annibale Cupri, che in sette pagine ha smontato la decisione del Questore di Ragusa evidenziando, al contempo, i punti del decreto che rischiano di essere asfaltati davanti alla Corte costituzionale e alla Corte di Giustizia europea.

Oggetto della decisione: il trattenimento di un tunisino richiedente protezione internazionale, trattenimento che, ricorda il giudice, ai sensi dell’articolo 2, lettera h), della direttiva 2013/33, rappresenta una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile “soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge”.

Nel caso in questione, anche se si riuscisse a trovare un video “compromettente” che ritrae Crupi ad una manifestazione in difesa dei diritti umani, sarà difficile, per il governo, spostare l’attenzione sul dito per distogliere lo sguardo dalla luna: il provvedimento, infatti, non è stato emesso sul luogo di frontiera, a Lampedusa, ma a Ragusa, dove il migrante è arrivato già con lo status di richiedente asilo. Peccato, però, che “dalla lettura della norma emerge in maniera piuttosto chiara che la procedura di frontiera è tale se la domanda viene decisa direttamente “alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro”“. Ed avendo, il migrante, manifestato la volontà di richiedere protezione sulla piccola isola delle Pelagie (“nel foglio notizie è barrata la casella asilo” proprio lì, scrive il giudice), “ne consegue che va considerato richiedente ai sensi della direttiva 32/2013 sin dal suo ingresso alla frontiera di Lampedusa ove la sua domanda doveva essere esaminata”, pur avendo sottoscritto il modello C/3 - ovvero il documento con il quale viene presentata la domanda di protezione internazionale in Italia - nella zona di transito di Ragusa.

Se non bastasse la logica a comprendere la questione, ci sono anche le pronunce di Consulta e Corte di Giustizia a soccorrere gli scettici: la Corte costituzionale, infatti, ha chiarito sin dalla sentenza dell’11 luglio 1989, n. 389, “che la normativa interna incompatibile con quella dell’Unione va disapplicata dal giudice nazionale”. L’articolo 8 della direttiva 33/2013, invece, prevede che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente”, ma solo “ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso”, salvo “se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”. Lo Stato può disporre il trattenimento “per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio”, nel caso in cui, come quello in questione, il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria. Ma “come già affermato da precedenti decisioni di questo Tribunale in procedimenti di convalida di trattenimenti riguardanti cittadini tunisini e le cui motivazioni sono condivise da questo giudicante (il riferimento è alle decisioni della giudice Apostolico, ndr)”, la garanzia finanziaria prevista dalla norma “non si configura, in realtà, come misura alternativa al trattenimento bensì come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto che chiede protezione internazionale”.

Si tratta, dunque, di un presupposto incompatibile con l’articolo 8 della direttiva 2013/33, così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria. Principi ribaditi in una sentenza del 2022 (cause riunite C-704/20 e C-39/21), in base alla quale “il cittadino di un paese terzo interessato non può (...) essere trattenuto qualora una misura meno coercitiva possa essere efficacemente applicata”. E le norme italiane, scegliendo la sola “tassa per la libertà” di quasi 5mila euro, saltano a piè pari le altre indicate dal diritto comunitario, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato.

Insomma, un tentativo, mal riuscito, di rendere il trattenimento l’unica scelta possibile, che conferma la tendenza del governo - già dimostrata con i dl Rave, intercettazioni e Caivano - di scrivere norme imprecise e facilmente aggirabili facendo semplicemente riferimento alla Costituzione, che per ora rimane legge fondamentale dello Stato. Forse per questo l’unica via d’uscita rimane il gossip di bassa lega sulla vita dei magistrati.