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di Giansandro Merli

Il Manifesto, 26 ottobre 2024

“Trattenuti”. Lo studio di Action Aid e Uni Bari mostra la nascita di un circuito di privazione della libertà personale parallelo ai Cpr: serve a rinchiudere chi chiede protezione. Prima rinchiusero i migranti che consideravano “irregolari”, poi vennero a prendere i richiedenti asilo. Sempre di più. È questa la principale direttrice di cambiamento del sistema italiano di detenzione amministrativa, quello riservato a chi non ha commesso reati. Sistema che doveva restare un’eccezione e invece guadagna spazio, estendendosi a nuove categorie di persone e differenziandosi al suo interno. Di “nuova geografia della detenzione” parla Trattenuti, rapporto curato da Action Aid e Uni Bari. Uno studio sistematico che copre gli anni dal 2014 al 2023 e si basa sulle informazioni contenute nelle (poche) fonti pubbliche ufficiali e sui dati ottenuti con una mole importante di accessi civici generalizzati. Strumento usato per rompere l’omertà istituzionale e superare l’opacità di informazioni disponibili sul tema. Che comunque in parte resta.

Nel decennio analizzato sono state circa 50mila le persone transitate “in centri che violano i diritti umani e sono un disastro per le finanze pubbliche”, si legge nel report. È noto che i rimpatri effettivi riguardano circa la metà di chi finisce nelle galere etniche. Il rapporto registra una tendenza decrescente - dal 52,9% nel quinquennio 2014-2018 al 48,2% di quello tra 2019 e 2023 - mentre aumenta il grado di coercizione di queste operazioni e dunque i loro costi. I voli charter, quelli con il maggiore coefficiente di costrizione, pesano sempre più rispetto all’utilizzo dei vettori commerciali (dove le persone possono salire con scorta o senza).

I numeri mostrano poi che l’aumento dei tempi di detenzione, recentemente innalzati a 18 mesi per alcune categorie di migranti, non incidono sul tasso di rimpatri e come si stia progressivamente realizzando una sorta di differenziazione funzionale dei Cpr. Quelli del continente servono soprattutto ad allungare i tempi di detenzione di chi proviene dal carcere, quelli siciliani di Trapani e Caltanissetta a rispedire le persone nel paese di origine. Ma ciò non vale per tutti allo stesso modo.

Dalle strutture dell’isola partono il 54% dei rimpatri nazionali e ben l’85% riguardano cittadini tunisini. Lo Stato con cui l’accordo di riammissione funziona meglio. In pratica, dice lo studio, i Cpr sono “sempre più utilizzati per gestire le procedure di rimpatrio accelerato dei cittadini di nazionalità tunisina”. L’aspetto maggiormente innovativo esaminato dal rapporto, comunque, è quello che riguarda la creazione di un circuito di trattenimento parallelo ai Cpr e destinato specificamente a chi fa domanda di protezione internazionale. Si tratta delle strutture chiamate Ctra: Centri di trattenimento richiedenti asilo. Ufficialmente non hanno ancora una definizione formalizzata. Il primo è stato aperto a Modica lo scorso autunno, il secondo a Porto Empedocle quest’estate e il terzo a Gjader, in Albania, a ottobre.

La loro gestione viene data in appalto ai privati seguendo il capitolato dell’hotspot. Dovrebbero servire a svolgere le procedure accelerate di frontiera, ma i tribunali di Catania, Palermo e più recentemente Roma non hanno convalidato i trattenimenti dei richiedenti. Così finora sono rimasti vuoti. Ma le cose cambieranno quando entrerà in vigore il Patto Ue su migrazione e asilo che prevede la detenzione generalizzata di chi chiede protezione internazionale ma ha poche speranze di ottenerla. Così un modello fallimentare - dal punto di vista della tutela dei diritti, dell’efficacia funzionale e dei costi - sarà esteso in “una progressiva ibridazione del sistema di accoglienza con quello detentivo destinato ai rimpatri nelle zone di frontiera”.