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di Giorgia Linardi

La Stampa, 19 settembre 2023

A Lampedusa abbiamo ceduto al ricatto. Uno dei punti del decalogo enunciato dalla commissaria europea Von der Leyen a conclusione della visita-lampo di domenica riguarda lo sblocco dei fondi promessi nell’Intesa Ue-Tunisia per la lotta al traffico di migranti. Eppure, dal 2011 sono aperte linee di credito europee e italiane che non hanno portato ai risultati auspicati: 178 milioni dal fondo fiduciario Ue per l’Africa e 47 milioni dall’Italia.

La pressione per lo sblocco dei fondi legati la Memorandum è altissima dato che, proprio nelle ore in cui aveva luogo la prima discussione democratica in Parlamento Ue la scorsa settimana, a Lampedusa arrivava un numero record di persone dalla Tunisia, dove sono in corso sgomberi verso le zone costiere. Complice un’economia parallela sviluppatasi nelle aree rurali intorno a Sfax, in cui la differenza tra trafficanti, “passeurs” e civili si assottiglia sempre di più, a fronte di un tessuto economico che non offre nulla alla popolazione.

Il tasso di disoccupazione sfiora il 20% e sale al 40% tra i giovani, i salari - già bassissimi - valgono il 30% in meno del 2011, l’inflazione supera il 10% (il tasso più alto degli ultimi 30 anni), in un Paese che si regge in solida parte sull’economia informale, spesso tradotta in sfruttamento, e sull’oligopolio intoccabile di una manciata di uomini d’affari che decidono letteralmente della disponibilità di prodotti di prima necessità sul mercato. Il 90% dei giovani tunisini cresce con il progetto migratorio in testa: chi può cerca - spesso invano - di ottenere un visto, e chi no, resta come può o prende il mare.

E proprio in mare sono numerose le testimonianze di violenze delle autorità tunisine contro i migranti subsahariani che Von der Leyen e Meloni vogliono continuare a foraggiare: bastonate, colpi d’arma da fuoco, insulti e sputi, speronamenti che in alcuni casi hanno causato il rovesciamento dei barchini e l’annegamento delle persone a bordo, richiesta di denaro in cambio di soccorso dopo aver depredato la barca del motore, percosse e arresti arbitrari a seguito del respingimento a terra. “Maledetti immigrati! Volete rovinare la Tunisia dicendo che non è sicura!” così si è sentito gridare S., giovane sierraleonese, mentre veniva torturato nella stazione di polizia di Lac, il quartiere finanziato dagli emirati in cui hanno sede le ambasciate e principali organizzazioni internazionali, incluse le agenzie Onu. E proprio davanti all’Unhcr S. si era accampato in cerca di protezione - dopo aver perso la casa a seguito del discorso xenofobo di Saied - ma è stato arbitrariamente arrestato durante il violento sgombero di aprile. Quarantacinque infiniti minuti di botte, scosse elettriche e insulti, conclusi con il trasferimento nella prigione di Mornaguia. Il Forum Tunisino per i Diritti Umani ha contato 3500 arresti di migranti tra gennaio e maggio, numero ulteriormente cresciuto con l’escalation di violenze, pogrom razzisti e deportazioni nel deserto di oltre 1200 persone a luglio.

A Mornaguia, si trovano anche molti tunisini vittima di arresti arbitrari legati alla negazione dei diritti fondamentali in corso nel Paese. Esponenti di associazioni Lgbtqi+, persone arrestate poiché l’omosessualità è criminalizzata dal codice penale. Oppositori politici rastrellati dopo l’assunzione dei pieni poteri il 25 luglio 2021, quando, a seguito del colpo di stato, la popolazione aveva sperato in una radicale riforma del Parlamento corrotto di allora, e si è vista invece riscrivere la Costituzione, dando pieni poteri a un presidente-autarca che ha destituito e indagato per corruzione e terrorismo 57 giudici in un giorno. “Saied ha sovvertito il processo democratico per instaurarne un altro di negazione delle libertà” racconta un esponente dell’Associazione dei Magistrati tunisini.

Anche la libertà d’espressione e di associazione sono fortemente minacciate. Secondo il Sindacato dei giornalisti tunsini, 36 reporter sono indagati e due in prigione, soggetti a processi d’opinione mentre la normativa vigente viene utilizzata per censurare l’informazione pubblica. In un contesto di altissima repressione, violenza poliziesca e arresti arbitrari, la società civile tunisina avverte: più securitizzazione per contenere i migranti significa più potere all’apparato repressivo. L’approccio Meloni-Von der Leyen, dunque, si abbatte non solo sulle persone in fuga, ma anche sulla popolazione tunisina intrappolata in un Paese che ha sempre più l’aspetto di una dittatura. Italia e Ue non possono sottrarsi al monitoraggio dello stato di diritto nei Paesi terzi con cui stringono relazioni: il rischio concreto è che l’influenza esterna alimenti la crisi della democrazia in Tunisia.