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di Marco Bresolin

La Stampa, 11 aprile 2024

Ppe e Pse votano sì. Caos nei partiti italiani. Contrari, per ragioni opposte, dem, M5S e leghisti. Dopo otto anni di trattative, il Parlamento europeo ha dato il via libera decisivo al nuovo Patto migrazione e asilo concordato con i governi. Lo ha fatto nell’aula di Bruxelles tra le proteste delle associazioni che sugli spalti hanno denunciato “la fine del diritto d’asilo”. Si tratta di una riforma che rivede profondamente le regole per la gestione interna dei flussi migratori, introduce controlli più rigidi alle frontiere e corregge, ma non supera, le regole di Dublino: la responsabilità resta in capo ai Paesi di primo ingresso, anche se addolcita dall’introduzione del concetto di “solidarietà obbligatoria, ma flessibile”. Tutti dovranno contribuire, ma potranno scegliere se farlo accogliendo o pagando (20 mila euro a migrante). Niente quote obbligatorie, nemmeno nelle situazioni di crisi.

L’equilibrio tra solidarietà è stato trovato grazie a un difficilissimo esercizio diplomatico. Prima nei negoziati tra i governi, poi in quelli interistituzionali con il Parlamento Ue e infine tra i gruppi politici dell’Eurocamera, dove la maggioranza Ursula ha mostrato segnali di cedimento per lasciare il posto a una coalizione dai contorni decisamente inediti. Il voto è rimasto in bilico fino alla fine e per tutta la giornata sono andate in scena trattative dell’ultimo minuto, non solo tra gli eurodeputati. Pare che Emmanuel Macron si sia mosso personalmente per cercare di convincere il premier polacco Donald Tusk: invano, visto che gli eurodeputati polacchi del Ppe hanno confermato la loro contrarietà, in dissenso con l’indicazione del gruppo.

Il pacchetto era composto da nove diversi provvedimenti legislativi e sarebbe bastata la bocciatura di uno solo per far crollare tutto il Patto. Ma non è andata così. Un momento “storico” per la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, che però ha scatenato dure reazioni di segno opposto e spaccato le famiglie politiche al loro interno. Se per Viktor Orban la riforma aprirà rappresenta “un altro chiodo nella bara dell’Unione europea” perché “aprirà le porte all’immigrazione clandestina”, per Monsignor Gian Carlo Perego della Cei le nuove regole segnano “una deriva nelle politiche Ue sull’asilo e un fallimento della solidarietà europea”.

Troppo aperturista per l’estrema destra, troppo disumano per la sinistra. Ma inseguendo le crepe che si sono create si capisce bene che la divisione non è soltanto politica. Dietro le spaccature ci sono anche ragioni geografiche - con una chiara contrapposizione tra i Paesi di primo approdo e quelli destinatari dei movimenti secondari - e dinamiche legate all’essere partito di governo o di opposizione. L’esempio più lampante lo si trova all’interno del gruppo dei socialisti-democratici, dove la delegazione Pd ha votato contro. Un atto in dissenso con la linea ufficiale, sostenuta invece dai socialisti spagnoli, che proprio con il governo Sanchez avevano gestito la fase finale dei negoziati. Discorso per certi versi speculare nel gruppo dei Conservatori, ufficialmente fuori dalla maggioranza europea: i parlamentari di Fratelli d’Italia, forza di governo, si sono distinti per il loro sostegno al Patto (tranne per il regolamento sulla solidarietà obbligatoria), incassando i complimenti del Ppe per il gesto di “responsabilità”. Fedeli alla linea anche i parlamentari di Forza Italia, mentre il M5S ha votato contro.

Ma la compattezza della maggioranza di governo si è sgretolata ancora una volta nell’Aula dell’Europarlamento. La Lega ha infatti scelto una strada diversa e non ha voluto sostenere l’accordo negoziato e siglato dal “suo” ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Troppo rischioso lasciare le proprie impronte digitali su una riforma che, una volta in vigore, verrà usata come capro espiatorio per denunciare le inefficienze dell’Ue al primo sbarco utile. “L’Italia è stata lasciata sola” il mantra che ieri sera risuonava negli ambienti leghisti, in contrapposizione alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, secondo la quale “con le nuove regole nessun Paese verrà lasciato da solo”.

Per l’entrata in vigore della riforma, ora manca solo l’ultimo via libera del Consiglio, ma si tratta più che altro di una formalità. A regime, le nuove regole imporranno rigide procedure di screening per i migranti che arriveranno alle frontiere esterne oppure che sbarcheranno in seguito a operazioni di ricerca e soccorso in mare. Gli Stati avranno sette giorni di tempo per fare i controlli sanitari, di sicurezza e per raccogliere le impronte digitali e i dati biometrici che poi saranno conservati nel database di Eurodac. I negoziati tra Parlamento e Consiglio, terminati a dicembre, hanno stabilito che anche i bambini dai 6 anni in su dovranno sottoporsi a queste procedure (nella versione precedente era dai 14 in su).

I migranti che arrivano da Paesi con un tasso di riconoscimento delle richieste di protezione internazionale inferiore al 20% verranno incanalati verso la nuova procedura di frontiera e trattenuti in appositi centri, dove le loro domande d’asilo dovranno essere vagliate nel giro di dodici settimane. Dopodiché gli Stati avranno tre mesi di tempo per rimpatriarli. Saranno escluse le famiglie con bambini e i minori non accompagnati, “purché non rappresentino una minaccia per la sicurezza”. Questi centri, che secondo le Ong diffonderanno in Europa il contestato modello applicato sulle isole greche, dovranno avere una capienza totale di 30 mila posti in modo da poter ospitare 120 mila migranti l’anno. La responsabilità dei rimpatri resterà in capo ai Paesi di primo ingresso, ma i migranti potranno essere rimandati in Paesi terzi sicuri, i quali li accoglieranno in cambio di denaro. Non è il cosiddetto “modello Ruanda” che vuole il Ppe perché i migranti dovranno avere un legame con quel Paese. Anche se con ogni probabilità il mero transito basterà a giustificare il trasferimento.