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di Monica Serra

La Stampa, 10 giugno 2022

Gratosoglio, quartiere della periferia Sud, è un limbo di case popolari, spaccio e campetti. Anche chi ha la cittadinanza italiana si sente straniero: “I ragazzi restano chiusi qui”.

Per arrivare qui, i suoi genitori hanno attraversato il Mediterraneo. Milano era la Ellis Island d’Europa. Spaccarsi la schiena per dodici ore al giorno in un cantiere, il sogno di una vita. Eppure per Sami, il mare che separa il Gratosoglio da piazza Duomo sembra impossibile da attraversare. È nato qui, ha 16 anni e l’arabo lo capisce a malapena. È un migrante immobile in una Milano dove per essere ai margini basta pochissimo. A volte Europa, altre quartiere senza uscita.

Via Costantino Baroni è un groviglio di palazzi Aler tutti uguali, alla periferia sud della città, dove convivono più di trenta etnie. “Qui c’è una stratificazione di problemi: il disagio economico, culturale, psichico, familiare. Tutti si sommano e ai miei ragazzi lasciano poche possibilità di futuro”. Don Giovanni Salatino è un parroco di frontiera e da nove anni “combatte” in questo quartiere. Qui non c’è la rabbia del Giambellino, del Corvetto o di San Siro, dove un lungo vialone alberato, via Monreale, è un confine impossibile da superare. Le ville dei ricchi da una parte, le fatiscenti case popolari di piazzale Selinunte e via Zamagna dall’altra, con i suoi rapper diventati famosi mentre cantano la Seven 7oo, i soldi facili, le auto di lusso, le armi, la violenza, ed entrano ed escono di prigione.

Al Gratosoglio c’è prepotenza, non le baby gang che seminano terrore. Soprattutto c’è la noia, lo spaccio di droga, tre bar dove gli anziani fanno la fila per giocare alle macchinette e gli uomini litigano davanti a una birra o a un bicchiere di bianco dal mattino. Un ufficio postale, la chiesa, l’oratorio, niente più. “C’è molta povertà, un livello culturale troppo basso, un altissimo tasso di dispersione scolastica. Dopo le medie molti ragazzi abbandonano gli studi, diventano invisibili ai nostri occhi, si perdono. Il lavoro è poco, consumano le giornate a fare nulla, finiscono in strada magari a spacciare o a rubacchiare, dei soldi le famiglie hanno bisogno”, riflette don Salatino sulla piazzetta dell’Arcadia, che in periodo di lockdown era diventata “terra di nessuno”, mentre guarda i suoi ragazzi giocare a calcio nel campo che il cantante Mahmood, cresciuto qui, ha realizzato dopo la vittoria di Sanremo. “La verità è che a loro nessuno pensa - sospira -. Ci sono associazioni e volontari che ruotano attorno alla scuola, sono importanti ma riescono a risolvere poco. Le autorità, il sindaco Giuseppe Sala, qui si vedono solo in periodo di elezioni”.

In monopattino arriva Abid, un ragazzone di un metro e ottanta, 13 anni, famiglia marocchina, la maglia del Milan e l’accento lombardo. Anche se “a casa si parla solo arabo”. Sulla carta d’identità la cittadinanza è italiana “ma se mi chiedono dico che sono marocchino, perché mi sento a mio agio: tutti mi vedono così”. E non è l’unico. Secondo una ricerca Istat del 2020, i minori di seconda generazione in Italia sono un milione 316 mila, il 13 per cento della popolazione sotto i 17 anni. Ma tra loro solo il 37 per cento si sente italiano, il 33 straniero, il 29 non lo sa.

Abid dice che del Gratosoglio cambierebbe “le persone. Che urlano, litigano per nulla, sono prepotenti”. Che “i più razzisti sono gli anziani italiani”, che lui esce sempre con amici marocchini e che quest’estate farà le vacanze lì: “I miei hanno comprato una casa e finalmente avrò una cameretta tutta mia, qui dormo sul divano in soggiorno”. Abid ha la media dell’otto, da grande vuole fare il medico, e “andare via dal Gratosoglio, viaggiare, vedere il mondo”. È il sogno di tutti qui. Di Anan, bengalese, di Jusef, egiziano, di Gabriel, italo-cubano, “che in centro non va mai, perché i ragazzi milanesi sono snob, ci guardano dall’alto in basso”.

Eppure “questi adolescenti sono nati e cresciuti qui, parlano come i nostri figli, si vestono allo stesso modo. Ma in tanti non hanno la cittadinanza italiana”. Lo Ius soli per Luigi, settantenne volontario dell’oratorio, dove i bambini trascorrono i pomeriggi tra calcio e doposcuola, è “un passo necessario per permettergli di integrarsi nella nostra società”.

Poi ci sono le condizioni economiche, l’auto-isolamento nei gruppi d’origine che parte dai genitori, il sendo d’inferiorità o almeno di diversità, la voglia di riscatto sociale. Anche Yassmin, la loro educatrice 27enne, che studia farmacia, non vede l’ora di andare a vivere lontano dal Gratosoglio: “La mia è stata una delle prime famiglie egiziane ad arrivare qui, nelle case popolari di via Saponaro che prima erano occupate soltanto da meridionali”. Negli anni Novanta il razzismo “a scuola c’era, le compagne erano tutte italiane e mi facevano i dispetti”. Ma nella casa “dove ancora viviamo, con le crepe che nessuno ripara mai, papà ha sempre parlato in italiano. Siamo musulmani ma nessuno in famiglia ha preteso che indossassi il velo perché qui mi avrebbe potuto creare problemi”. E lei sin da adolescente non vedeva l’ora di “prendere il tram per andare a Milano. Ora i ragazzi non lo fanno, restano nel quartiere, sempre tra loro, chiusi nella loro comunità”.

Yassmin ha imparato l’arabo da grande, il suo percorso non è stato facile: “Mio fratello di 33 anni, che si è laureato e ora lavora a Chiasso, non lo ha mai voluto imparare e ha sempre frequentato solo italiani. Quando eravamo piccoli e tornavamo in Egitto, tutti mi chiamavano “la straniera”, qui per tutti ero l’”egiziana”. Per anni mi sono chiesta chi sono”.