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di Luigi Manconi

La Stampa, 19 settembre 2023

Il cuore del messaggio inviato dal governo attraverso i provvedimenti in materia di immigrazione consiste in un numero: 18. Ovvero 18 mesi di trattenimento nei Centri per il rimpatrio (Cpr) per gli stranieri irregolari. Il calcolo che c’è dietro è elementare: 18 mesi, un anno e mezzo, sembrano una misura abbastanza intimidatoria e afflittiva per chi - e così l’operazione rivela il suo fondo di vergogna - è responsabile esclusivamente di un illecito amministrativo: non disporre, cioè, di un documento valido per l’ingresso e il soggiorno in Italia. Ma l’inganno non si limita a questo.

Quei 18 mesi dovrebbero apparire, a una opinione pubblica inquieta, come la giusta sanzione inflitta da un governo finalmente rigoroso. Le cose non stanno così. Basti ricordare che la detenzione per un anno e mezzo è tutt’altro che una novità. Era già così tre lustri fa e, successivamente, qualche anno addietro. E i dati parlano chiaro. Tra il 2019 e il 2020 - sempre con permanenza di 18 mesi - i rimpatri sono diminuiti sensibilmente, passando da 6.581 a 3.251. Una autentica sconfitta.

Il fatto è che i Cpr sono un istituto fallimentare. Sotto altro nome (o meglio: sotto altri e differenti nomi) esistono dal 1998 e, nel corso di questo quarto di secolo, il periodo di trattenimento è stato allungato o accorciato sulla scorta dei successivi allarmi sociali e dei diversi sussulti emotivi che hanno scosso l’opinione pubblica: da 3 mesi a 18, da un mese a 6. E mai si sono rivelati una soluzione efficace, a partire dai numeri: poche migliaia di persone rispetto all’universo degli stranieri irregolari. Per capirci, in tutto il 2022 sono stati trattenuti nei Cpr meno di quelle 7mila persone sbarcate a Lampedusa nell’arco di 48 ore: e, di loro, solo la metà sono state rimpatriate.

Dunque, tutta l’enfasi riposta su queste due evocazioni (Cpr-18 mesi) sembra finalizzata solo a esaltare la dimensione carceraria del provvedimento, la sua funzione minatoria e la simbologia securitaria che evoca. Il problema infatti è tutt’altro. La strategia dei rimpatri non funziona perché, innanzitutto, la base giuridica dell’istituto dei Cpr è controversa (un illecito amministrativo sanzionato con la reclusione in assenza di una decisione del magistrato); e, poi, perché i rimpatri sono assai dispendiosi e richiedono una interlocuzione con i Paesi di provenienza degli immigrati, che attualmente coinvolge appena una minoranza di Stati. Un esempio solo: nel corso di 12 mesi sono stati rimpatriati in Albania appena 58 irregolari. Il rimpatrio di un solo migrante è, dunque, operazione quanto mai complessa dai costi elevatissimi, che richiede una cooperazione intensa con i Paesi di provenienza, ancora tutta da realizzare.

Se a questo, o poco più, si limita la strategia di Giorgia Meloni siamo davvero fritti. Dietro tutto ciò, è impossibile tacerlo, c’è un gigantesco problema di cultura politica: una macroscopica ignoranza dell’origine profonda del fenomeno. Facciamo un passo indietro e ascoltiamo Meloni: “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” (Cutro, 10 marzo 2023). Non è dato sapere quanti trafficanti di esseri umani nelle settimane trascorse da quell’annuncio siano stati arrestati, ma è lecito supporre che il loro numero sia irrisorio: in caso contrario, chissà che sarabanda.

Tuttavia, nell’ansiogena ricerca del responsabile del complotto che ha portato quegli oltre 7 mila profughi a Lampedusa in poche ore, i trafficanti non sono più i principali sospettati. La destra accusa, di volta in volta, “i socialisti europei”, le armate della Wagner e il presidente della Tunisia Kais Saied, irritato per non aver ancora incassato i 255 milioni promessigli. Una tale ossessiva ricerca del capro espiatorio giustifica la domanda: insomma, i nostri nemici sono i trafficanti oppure il despota tunisino che foraggiamo per contrastarli, quegli stessi trafficanti?

In ogni caso, quanto emerge nitidamente è la povertà irreparabile dell’analisi dell’immigrazione elaborata dalla destra che, nel corso di decenni, non è stata in grado di proporre uno straccio di diagnosi seria fondata su dati scientifici e su categorie economiche, sociali, ambientali e demografiche. Di conseguenza, ogni volta che il fenomeno si acutizza, ecco l’invenzione di un nemico. E, non a caso, il piano Kalergi sulla “sostituzione etnica”, confusamente ciancicato dal ministro delle Politiche Agricole Francesco Lollobrigida, è stato agitato dal presidente Saied nei confronti dei migranti provenienti dal Sahel per mobilitare gli strati popolari tunisini contro i nuovi arrivati.

Come si vede, dall’insieme di questo quadro, ciò che viene espunta è l’analisi delle cause profonde dei flussi migratori: dal fallimento di numerosi Stati africani alle guerre tribali, dalle carestie e dalle inondazioni in Libia ai milioni di profughi ambientali, dalla crisi di tutte le politiche occidentali nel continente all’incremento dello scarto tra il ritmo di sviluppo dei Paesi industrializzati e quello delle nazioni più arretrate.

Si tratta evidentemente di questioni globali e di portata davvero epocale che nessun Paese europeo e nessun Consiglio dei ministri può pensare di affrontare in solitudine. Ma ciò che colpisce è la totale inconsapevolezza di tali questioni, per come emerge brutalmente dai provvedimenti adottati dal governo italiano. Tutte le parole pronunciate e tutte le misure assunte sembrano provare, in maniera inoppugnabile, che manca qualsiasi contezza delle dimensioni reali della questione, qualsiasi analisi scientifica, qualsiasi memoria storica. È una sorta di deficit cognitivo e di analfabetismo di ritorno che, purtroppo, rischia di ricadere su tutti noi, governati da dilettanti che - per loro stessa ammissione - non leggono i libri e non leggono la realtà.