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di Carlo Vulpio

Corriere della Sera, 10 agosto 2024

Nel Centro di permanenza per i rimpatri un ragazzo marocchino è morto e non si sa ancora bene perché: se per le botte dei poliziotti, degli operatori o di altri detenuti, se per non essere stato soccorso in seguito a un malore. Lo chiamano Psg, ma la squadra di calcio parigina non c’entra. Psg è l’acronimo di Palazzo San Gervasio, cinquemila abitanti, dove si trova un Cpr, Centro di permanenza per i rimpatri, in cui tutti parlano francese, oltre che arabo.Nel Cpr di Psg sono ospitate, internate, rinchiuse, detenute, dite come vi pare, 100 persone, quasi tutte marocchine. Dal 5 agosto, i reclusi sono diventati 99, perché uno di loro è morto e non si è ancora capito bene perché: se per le botte dei poliziotti, degli operatori o di altri detenuti, se per non essere stato soccorso in seguito a un malore - quando, all’improvviso, la sera del 4 agosto, è collassato ed è stato abbandonato a sé stesso - oppure per entrambe le cose.

Quando il ragazzo marocchino di 23 anni è stato trovato morto, nel pomeriggio di lunedì 5, nel Cpr è scoppiata una rivolta. Prima le proteste e le urla, poi, in serata, un incendio. Con due “moduli” detentivi, sui 17 totali, carbonizzati. I pompieri ci hanno impiegato tre ore per domare le fiamme, i 50 poliziotti in tenuta antisommossa hanno arginato la ribellione, i 20 o 30 militari dell’Esercito hanno raddoppiato il cordone intorno alla cinta muraria del Cpr, detto anche “La Voliera” o “Guantanamo”, e i detenuti alla fine si sono arresi.

Dall’altro ieri, poi, i 99 del Cpr sono diventati 85 perché ben prima della scadenza dei tre mesi di detenzione previsti dalla legge Minniti-Orlando, con provvedimento del questore di Potenza, sono stati liberati 14 prigionieri, che si sono dati alla macchia: secondo gli avvocati che li rappresentano, proprio quelli che i magistrati avrebbero potuto convocare come testimoni sulla morte del ragazzo. Il quale, in un primo tempo, era stato identificato come “Oussama Belmaan, algerino, di anni 19”, perché il giovane aveva dichiarato false generalità. L’unica cosa certa per il momento è il suo numero di matricola, 4607, che lo identificava tra gli altri cento reclusi del centro, o campo, o lager, o gulag, anche in questo caso dite come vi pare, il concetto e la traduzione di queste parole significano la stessa cosa.

Ma il numero di matricola 4607 non è sufficiente a risalire ai genitori del ragazzo per consegnare loro il corpo, che per adesso resta insepolto e senza nome sul tavolo anatomico di un obitorio anche dopo l’autopsia di rito. Nemmeno a Priamo e ad Antigone toccò questa sorte.

Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio (che con l’aggiunto Maurizio Cardea due mesi fa ha chiuso un’altra inchiesta sullo stesso Cpr per la somministrazione forzata di psicofarmaci ai detenuti, con 27 persone indagate) ha detto che “non si può escludere l’omicidio”. E ieri ha acquisito la testimonianza registrata di Hamza Ezzine, un altro detenuto del Cpr, amico del giovane morto, che il Corriere, grazie all’associazione “Migranti Basilicata”, aveva rintracciato e sentito telefonicamente appena l’uso dei cellulari, per placare la rivolta, è stato dal questore nuovamente consentito ai detenuti.

Il Corriere ha anche sentito altri testimoni, tra i quali alcuni operatori del Cpr (dipendenti della cooperativa “Officine Sociali”, che ha in appalto la struttura), ma non la direttrice del centro, Katia Candido, sempre irraggiungibile. I loro racconti su questa Terra di Nessuno, dove le vite “degli altri” sono sospese e non vale nemmeno l’ordinamento penitenziario che regola le carceri “normali”, sono incredibili. “A me questo posto fa schifo - dice un operatore che chiede l’anonimato -, ma devo lavorare. Ho famiglia. Qui, questa gente sta 24 ore su 24 dietro le sbarre. E alla fine commette atti di autolesionismo”.

È stato proprio un atto di autolesionismo di Hamza, trent’anni, anch’egli marocchino, a segnare la sorte del ragazzo numero 4607. “Lui è salito sul tetto per me - racconta Hamza -. Protestava perché nessuno veniva a soccorrermi dopo che avevo ingerito dei bulloni e mi ero inferto un profondo taglio sul braccio. Grazie a lui mi hanno trasportato all’ospedale di Melfi, dove mi hanno ricucito con nove punti di sutura”. Hamza è un parrucchiere e circa dieci giorni fa, quando ha tagliato i capelli al suo amico 4607, aveva notato che nella parte alta della fronte “aveva un buco grande quanto una moneta”. Dice Hamza: “Gli ho chiesto cosa gli fosse successo, ci siamo guardati e ho capito. Quando però sono rientrato dall’ospedale di Melfi, ho saputo che 4607 era stato “prelevato”. L’ho rivisto la sera, quando due persone lo trasportavano a braccio, trascinandolo come un corpo morto per poi abbandonarlo sul pavimento della cella”.

Era domenica sera, 4607 giaceva per terra. Nessuno lo ha soccorso. I compagni di cella allora hanno bagnato di acqua un materasso e lo hanno sistemato fuori, adagiandovi sopra il ragazzo. Che ha trascorso la notte così, senza mai ridestarsi. Il giorno dopo, alle 17, lo hanno trovato morto. Nella “Voliera” è atterrato un elicottero del 118 e l’hanno portato via. Subito dopo è scoppiata la rivolta e le fiamme hanno avvolto il Centro di “assistenza” di Psg.