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di Angela Nocioni

L’Unità, 11 giugno 2023

“Progetti concreti sulla dimensione esterna”. Così parla Matteo Piantedosi. Vuol dire: lager in franchising. Ma da lui non lo saprete mai. Perché non lo dice. E perché nessuno gli chiede cosa diavolo voglia dire quando parla. Ecco come il ministro degli interni ha spiegato all’Adnkronos l’accordo europeo sull’immigrazione: l’Italia ha ottenuto che i fondi confluiscano in un “fondo per realizzare quello che l’Italia ha voluto: progetti concreti sulla dimensione esterna, accordi con Paesi terzi, infrastrutture”.

Il ministro dice “progetti concreti sulla dimensione esterna” e si riferisce alle gabbie che l’Europa intende far costruire fuori dai suoi confini per rinchiuderci i migranti, respinti dai singoli stati europei, indipendentemente dal loro luogo di origine. Occhio, non è ineffabile linguaggio post democristiano il suo. Non è la lingua impalpabile e ambigua di Arnaldo Forlani: impalpabile, ma politica. Non è nemmeno il grammelot della Commedia dell’arte del ‘500, assemblaggio di suoni, onomatopee e parole prive di significato usato per aggirare la censura.

Quello di Piantedosi è un muro di parole affastellate per coprire con una cascata di vocaboli incerti decisioni che riguardano tutti. E’ un tappo che mette sulla verità. Magari si trattasse di buffo lessico da questurino. No. Il suo linguaggio è una menzogna che copre atti concreti d’esercizio del potere. Non è una macchietta, è un ministro dell’interno che non spiega quel che fa nemmeno quando è chiamato in Parlamento a farlo. Camera dei deputati, Commissione affari costituzionali, primo marzo scorso.

Il ministro Piantedosi esordisce così perché vuol spiegare il suo ritardo: “Questo è stato determinato rispetto a una programmazione che era stata adottata ben prima, purtroppo l’evoluzione di vicende, l’agenda, mi ha imposto di chiedere la cortesia di aspettare”. E va bene, non importa, abbiamo comunque capito. Poi però deve rispondere ai deputati in Commissione che gli chiedono dei mancati soccorsi al caicco “Summer love” pieno di decine di bambini, non s’è mai saputo quanti - 94 morti, una ventina di dispersi - schiantatosi il 26 febbraio a poche decine di metri dalla riva di Cutro, in Calabria, senza che nessuno sia andato a soccorrerlo (nessuno ad attenderlo nemmeno a terra) nonostante fosse stato avvistato due giorni prima.

Perché e da chi è stata decisa una operazione di contrasto all’immigrazione e non di soccorso? Così risponde Piantedosi: “Alcune cose ci tengo a dirle. La qualificazione dell’evento, ho dato la disponibilità, il governo deciderà nella sua collegialità, io ho premesso e volutamente ho cominciato a parlare nel rendere questa informativa che doveva essere sulle linee programmatiche ho messo doverosamente questo punto di informazione su questo tragico episodio premettendo che questo non lo ritengo esaustivo di una informativa che so essere stata richiesta e che sono disponibile a dare se questa dovesse essere calendarizzata”.

È la trascrizione esatta delle sue dichiarazioni. Andatevelo a sentire (dal minuto 1.26.30 in poi) sul sito della Camera dei deputati. “È opportuno quando si parla di attribuzione di responsabilità per evento molto grave, perché è stato evento molto grave, non solo nella sua valenza umana ma anche in quello che possono essere attribuzioni e individuazioni di eventuali responsabilità lasciar fare la magistratura il che non vuol dire governo, rappresentanti del governo, ho cominciato a farlo oggi potere e dovere dare una prima rappresentazione dei fatti che gli risultano da atti perciò facevo e me ne scuso riferimento alle fonti perché è importante dire di cose colte così senza che ci sia una fonte io sono abituato così”.

Sempre in quell’audizione cerca di dar conto delle parole da lui usate il 27 febbraio subito dopo la strage. Queste: “Beh, comunque credo che la disperazione non può mai giustificare viaggi che mettono in pericolo i propri figli”. “Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo, ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”. “Il senso delle mie parole era fermatevi, verremo noi a prendervi”. “Il mio motto, ripeto, è fermatevi che arriviamo noi”. Parole terribili, che avevano scatenato un putiferio anche perché espresse in una lingua comprensibile.

Proprio perché erano state comprese s’è trovato a doverle giustificare. E l’ha fatto: “Le espressioni che ne diamo. Ora io adesso poi sulle espressioni premesso che quando l’ho detta non c’era l’analisi specifica delle persone arrivate che peraltro si sapeva insomma per una serie di riferimenti le provenienze era un riferimento generalizzato a tutte le provenienze tutto quello che riguarda il fenomeno migratorio che basta vedere le nazionalità che riguardano in generale non in questo caso l’arrivo sul territorio nazionale e vede impegnate molte provenienze da paesi che per carità poi il sogno di una vita migliore altrove è un diritto della persona che va stabilito sempre quando da diritto naturale si deve trasformare in legittima aspirazione giuridica ma riguarda anche prevalentemente paesi che non hanno condizioni di guerra almeno non come sono codificate in maniera tale da giustificare poi la protezione internazionale. Quindi quando io ho fatto quell’espressione quando ho voluto ricordare peraltro era riferito a quella cosa era una questione di carattere generale non riguardo alle persone che erano, ahimé, impegnate in questo evento migratorio che si è rivelato tragico”. V’è venuto il mal di testa? Al Senato il giorno prima era stato pure peggio.