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di Linda Ginestra Giuffrida

Il Manifesto, 17 ottobre 2024

Il debutto del “modello Albania” non avrebbe potuto essere peggiore. Una volta che la nave Libra è arrivata nel paese delle Aquile si è scoperto che tra i 16 migranti trasportati fino al porto di Shengjin c’erano anche due minori bengalesi e due egiziani vulnerabili, quattro persone che, stando al protocollo firmato tra Roma e Tirana non avrebbero dovuto trovarsi lì. E in serata si è sparsa la voce, non confermata, della presenza di un terzo minore. Per tutti loro è cominciato il viaggio di ritorno verso l’Italia a bordo di una motovedetta della Guardia di Finanza che li ha riportati sul pattugliatore Libra della Marina Militare italiana con cui erano arrivati. Un video li ritrae mentre salgono a bordo della motovedetta, poche ore dopo aver messo piede in territorio albanese ed essere stati identificati. Un chiaro fallimento in partenza del tanto atteso patto Meloni-Rama, che ieri il ministro Piantedosi ha difeso in parlamento, e siamo ancora alla prima fase, quella delle procedure a cui saranno sottoposti i primi migranti trasferiti in Albania.

Sono circa le otto del mattino quando la nave Libra arriva al porto di Shengjin, nel nord dell’Albania. Una lunga attesa costringe i migranti a rimanere ancora a bordo, come non fossero bastati i tre giorni di navigazione da Lampedusa ai Balcani. Un viaggio costato più di 250 mila euro. Verso le dieci i naufraghi cominciano finalmente a scendere sulla banchina a gruppi di quattro. Mettono piede in Albania per qualche minuto, ma subito scompaiono dentro il centro di prima accoglienza, e sono nuovamente “in Italia”. Le tre strutture costruite dall’Italia in Albania, il centro di prima accoglienza di Shengjin, quello per i richiedenti asilo, quello per il rimpatrio e il penitenziario di Gjiader, rispondono, infatti, alla giurisdizione italiana.

Alle 10:30 circa tutti i migranti sono dentro il centro di prima accoglienza. L’atmosfera rimane tesa e la sbarra in ferro che separa l’interno del porto dal resto della comunità di Shengjin, resta abbassata. Un suono di sirena rompe il silenzio delle riprese dei tanti giornalisti fuori dal porto. Il suono arriva da un gruppo di attivisti albanesi che sorreggono un cartonato a grandezza d’uomo di Giorgia Meloni e del premier albanese Edi Rama vestiti da carcerieri. Sotto i loro corpi in cartone, uno striscione recita: “Il sogno europeo finisce qui”. “Abbiamo un’idea dell’Unione europea come di un posto di democrazia, valori e diritti umani ma oggi questa idea l’abbiamo vista calpestata. Per questo abbiamo rappresentato il nostro presidente insieme a Meloni vestiti da carcerieri, perché è quello che stanno facendo dell’Albania: un carcere”, racconta un’attivista del collettivo albanese Mesdhe. Le fa eco Fioralda Duma, italo-albanese (così si definisce, “anche se senza cittadinanza italiana” ci tiene a precisare), portavoce del collettivo: “Il fatto che questi territori albanesi, dove oggi sorgono i centri di detenzione italiani, vengano considerati territorio extraterritoriale italiano è un pericolo per la nostra democrazia ma anche una zona grigia dal punto di vista giuridico e legale. È un accordo che viola totalmente i diritti umani”.

Intanto le ore passano e i migranti sono ancora reclusi nel centro di prima accoglienza del porto di Shengjin. Secondo l’accordo le operazioni di identificazione e le visite mediche dovrebbero concludersi al massimo entro le prime otto ore dal momento in cui i migranti mettono piede in territorio albanese a quando entrano nella struttura di Gjiader. In realtà alle 21,30, quando di ore ne sono passate undici, ancora non succede niente. Un ritardo che potrebbe essere dovuto alla scoperta dei due presunti minori prima e dei due casi vulnerabili dopo.

L’attesa, interminabile, appare ancora più paradossale se si pensa che ieri sono arrivate appena sedici persone. Cosa accadrà quando, secondo i piani del governo italiano, a sbarcare saranno decine o centinaia? Il centro per richiedenti asilo a tarda sera è ancora vuoto, il sole è tramontato già da parecchio e gli edifici grigi al di là della recinzione restano illuminati solo da luci artificiali. Le cabine dormitorio, una dietro l’altra poste a schiera, sono sigillate. La parte posteriore della struttura è ancora un cantiere, ma ad essere sinceri lo sembra anche la zona dichiarata “pronta”. Fuori dalla recinzione che raggiunge i cinque metri nella sua parte più bassa, è buio pesto, solo alberi e cani che abbaiano, di altri esseri umani neanche l’ombra. Si chiude così la giornata di battesimo del discusso piano Albania. Con tutti i presupposti per far discutere ancora per molto.